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ITALIA IN SVENDITA - NO Privatizzazioni! 

NERO ITALICO
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Tra le file degli anti-establishment l'unica cosa che regna sovrana, oggi, è la confusione!
Sentiamo più o meno indifferentemente proclami di uscita dall'Unione Europea, abbandono dell'Euro e cancellazione del debito. Ma non sono la stessa cosa!
L'Unione Europea è un trattato sostanzialmente giuridico-commerciale, sul quale si potrebbe lavorare dato che allo stato attuale è un progetto incompiuto ma gestibile entro certi limiti.
L'Euro appartiene ad un più vasto accordo monetario che include anche la BCE e determinate regole di gestione della politica monetaria, che piacciano o meno.
Il debito pubblico, invece, è un problema che ciascun Paese deve guardare da dentro e l'Italia il primis dato che ormai puntiamo al record di 2.100 miliardi di Euro di debito pubblico.
Al più si apprezza la posizione di chi distingue tra anti-europeismo e anti-Euro, posto che l'Euro, soprattutto questo Euro, è un accordo monetario contro l'Europa. Ciò detto una certa idea di Europa, di organizzazione di economia continentale è imprescindibile nell'ottica dei grandi blocchi economici che governano il mondo.
Ma la questione davvero imbarazzante è la confusione tra Euro e debito, ovvero la posizione di chi ascrive ad una non meglio precisata "uscita dall'Euro" la risoluzione del problema del debito. In questo senso, c'è il timore che all'interno della forza politica attualmente di maggiore opposizione all'establishment, il M5S, tale confusione concettuale alberghi sovrana.
Intanto l'uscita dall'Euro non vuol dire nulla se non si dice dove si propone di entrare!
In secondo luogo, se si sottintende tacitamente che uscire dall'Euro voglia dire tornare alla Lira anche questa rischia di essere una trovata elettorale e poco di più. Difatti, la Lira c'era anche negli anni '90 ma era emessa da una banca semi-privata, la Banca d'Italia, veniva prestata al Tesoro creando le premesse per l'immenso debito pubblico di cui oggi abbiamo contezza, e era soggetta a tassi di interessi stabiliti anch'essi da un soggetto terzo semi-privato. Se è questa la Lira che tacitamente si sottende con la proposta di uscita dall'Euro allora siamo al buio.
M5S ed economisti "alternativi" devono, una volta per tutte, prendere posizione sul problema di fondo che è quello della proprietà della moneta e dei meccanismi di emissione. La proposta rivoluzionaria, che taglia le gambe alla speculazione e consente di cancellare gradualmente il debito pubblico, è quella di emettere moneta senza debito, ovvero moneta di Stato e monete complementari, come erano le 500 lire dei tempi di Aldo Moro. Se la moneta viene emessa da un ente privato e prestata alla popolazione che per usarla deve indebitarsi e pagare interessi e se la quantità di moneta non è funzionale alla crescita economica allora non c'è Lira che tenga, rimarremo dove siamo.
Tutto il resto sono disquisizioni da salotto, trovate elettorali.
Alberto Micalizzi
www.tech-media.it
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12 сен 2024

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Комментарии : 61   
@Grofaz41
@Grofaz41 10 лет назад
Lavoro eccellente! Video impeccabile!
@ugobasse6404
@ugobasse6404 10 лет назад
Come sempre, ottimo lavoro!
@NEROITALICO
@NEROITALICO 9 лет назад
Il Ttip e la reale posta in gioco in Europa (Il Primato Nazionale) Roma, 19 lug -Siamo stati fra i primi a porre in Italia il problema del Ttip, ovvero dell’accordo di libero scambio fra Usa (con Canada e Messico) ed Unione Europea, che metterebbe di fatto i singoli governo nelle mani di tribunali sovranazionali facenti gli interessi delle multinazionali. Avevamo adombrato la costituzione di una “moneta transatlantica” per dare consistenza anche valutaria al trattato e favorire così (come del resto con l’Euro) la circolazione internazionale dei capitali. Quello che ignoravamo è che, di fatto, questo non è in realtà necessario. Chi vuole approfondire particolari tecnici può leggersi questo articolo di Luciano Barra Caracciolo, membro della Corte dei Conti e studioso di diritto costituzionale. Il sunto è semplicemente che la Commissione ha in ogni caso il potere di fissare un peg, ovvero una banda d’oscillazione più o meno stretta, fra una divisa straniera (come il dollaro) e tutte le divise dell’Ue, quindi sia dell’eurozona che al di fuori di essa. Ora capiamo perché il Regno Unito vuole sfilarsi dall’Ue entro il 2017: non perché improvvisamente Cameron sia diventato dirigista e protezionista, ma semplicemente perché ha il buon senso di voler trattare il proprio accordo di libero scambio autonomamente e mantenendo una politica valutaria sovrana. Le considerazioni politiche di questo fatto sono vastissime. In primo luogo, chi ancora pensa che esista un epico scontro in Europa fra tedeschi e angloamericani, e che quindi attaccando l’euro e l’Ue si faccia di fatto il gioco dei secondi, è un illuso. Con il Ttip, unito al peg valutario, la Germania sostanzialmente rimarrebbe l’unica grande potenza manifatturiera in Europa, mentre i capitali americani sarebbero liberi di invadere il mercato delle economie devastate dalla sua ottusità. Il peg valutario sostanzialmente consentirebbe (come l’euro “forte”) di fare man bassa delle imprese italiane, dei suoi beni demaniali ed anche, in prospettiva, del nuovo settore dei servizi privatizzato, ovvero quello della sanità e delle pensioni. In secondo luogo, si sta realizzando compiutamente quel Brave New World mondialista che tanto abbiamo adombrato, e che fu esplicitamente e pubblicamente teorizzato dai massimi araldi dell’utopia europeista: Hayek, Spinelli, Coudenhove-Kalergi, ecc… Tanto per fare un esempio: nel 1972, all’Accademia Militare di Modena, Eugenio Cefis (fondatore della P2, capo dell’Eni dopo Mattei, corruttore impenitente di tutto e tutti in particolare in ambito Pci) tenne un discorso dal titolo significativo di “la mia patria si chiama multinazionale”. In pratica, si adombrava semplicemente, e con lucida decisione, la struttura stessa del Ttip, cioè della subordinazione delle politiche nazionali ai desiderata delle lobbies, ovviamente all’interno di un “superstato europeo”. Chi sostiene l’Ue, quindi, chi sostiene l’euro, anche solo chi critica chi adombra una prospettiva sovranista, è dalla parte di Cefis. Sovranismo oppure mondialismo, non vi è alternativa possibile. Ecco perché uscire solo dall’euro è una proposta monca, senza alcun senso. Ciò che serve è smantellare l’Ue e recuperare il pieno controllo politico sulla nostra economia, ma anche e soprattutto sulla nostra politica estera, pericolosamente esposta a Washington. Non è il momento dei riformismi. È il momento della guerra. Matteo Rovatti www.ilprimatonazionale.it/esteri/il-ttip-e-la-reale-posta-in-gioco-in-europa-27706/
@NEROITALICO
@NEROITALICO 9 лет назад
Grillo: “Vogliono svendere Eni”. Ma poi si accoda a chi vuole smembrarla (Il Primato Nazionale) Roma, 14 mag - “L’Eni ha dato vita a sistema corruttivo di portata internazionale”. Beppe Grillo non ha scelto la via diplomatica per lanciare il suo atto d’accusa, ieri, in occasione dell’assemblea degli azionisti del cane a sei zampe riunitasi presso la sede dell’Eur. Non è la prima volta che Grillo fa la sua comparsata ad un’assise societaria: accadde già nel 2007, quando riuscì ad ottenere le deleghe necessarie per intervenire all’assemblea Telecom e denunciare le malversazioni seguite alla privatizzazione dell’ex monopolista telefonico. Come allora, anche in questo caso l’intervento è una sassata, una serie di strali rivolti a dirigenza ed ex dirigenza per le scelte compiute negli anni e che, a detta del leader del Movimento 5 stelle, avrebbero “ridotto a un cadavere un pezzo straordinario dell’azienda pubblica”, con il sospetto “che vogliano svendere ai privati”. Fin qui la protesta, sulla quale Grillo e gli interi gruppi parlamentari M5s si mostrano sempre coriacei. La proposta, invece? La pars costruens? Generica, fin vacua. Che il ministero dell’Economia abbia in programma di vendere il 4% di Eni in suo possesso non è un mistero. La cessione, della quali si parla da anni ormai, sin dai tempi in cui ministro era Saccomanni, rientra fra quelle programmate per la riduzione del debito pubblico. Si può contestare la validità dell’operazione -che come tutte quelle di privatizzazione nella migliore delle ipotesi non conseguirà l’obiettivo che si pone- ma parlarne come di un piano deciso all’oscuro nelle stanze del potere è decisamente fuori dalla realtà. In secondo luogo, Grillo manca totalmente di tracciare una via per il rilancio di Eni. L’azienda è in crisi? No, visto che nonostante il consistente calo del prezzo del petrolio i conti reggono. Sta intraprendendo un percorso di riorganizzazione? Da che mondo è mondo, ad ogni cambio di dirigenza i nuovi arrivati tentano sempre di dare la loro visione delle cose. E quella di Descalzi è abbastanza chiara: arretrare dal settore raffinazione, separare -anche tramite scorporo- il settore gas dal petrolio, concentrarsi principalmente (se non esclusivamente) sull’upstream, vale a dire la ricerca e l’estrazione di idrocarburi che tante soddisfazioni ha regalato al gruppo in questi ultimi anni. Il rischio spezzatino c’è, ma allora Grillo non può dire che “Descalzi mi ha convinto”: a che pro parlare a favore delle sorti della società e poi apprezzare chi rischia di spezzarla in più parti? Diverso il discorso per quanto riguarda invece, Scaroni “oggi alla Rotschild, ha messo in liquidazione questo pezzo di Eni che si chiama Saipem”. In realtà, fin tanto che la gestione era affidata al manager vicentino, sull’integrità di Eni i dubbi erano a zero. Rimase celebre il conflitto con il potente fondo d’investimento Knight Vinke, che chiedeva a gran voce la separazione proprietaria di Snam, ricevendo ad ogni assalto sempre un due di picche. Poi la separazione di fece, ma solo perché imposta obtorto collo dal governo tecnico guidato da Mario Monti. L’affare Saipem deflagrò invece nell’agosto 2013, a meno di un anno dall’uscita di Scaroni dalla società, che sarebbe avvenuta nell’aprile successivo. Il dossier è stato poi ripreso in mano, con più speditezza, dall’attuale dirigenza. A confermarlo è il presidente, Emma Marcegaglia: “Nei tempi e nei modi giusti -ha detto, intervistata da Il Sole 24 Ore- deconsolidare Saipem e farla diventare più autonoma dall’Eni, darebbe più forza a entrambe. Abbiamo annunciato quel progetto e poi lo abbiamo congelato dicendo che avremmo aspettato che il prezzo del petrolio si fosse stabilizzato”. Non poteva mancare, per il filone legalitario, anche la richiesta di una clausola di onorabilità che -come disposto da norma del governo Letta, ma non recepita negli statuti societari- sancisce la decadenza di amministratori condannati anche solo in primo grado. Questa è una misura che potrebbe davvero spianare la strada alla svendita al miglior offerente, magari a quella stessa People’s Bank of China che sta facendo incetta di partecipazioni in aziende italiane approfittando delle loro difficoltà. Difficoltà che possono nascere anche e soprattutto da inchieste che spesso si risolvono in un nulla di fatto. Così facendo abbiamo già perso Guarguaglini, costretto a lasciare il vertice Finmeccanica per poi essere assolto, con formula piena, dalle accuse mosse nei suoi confronti. E proprio Finmeccanica è il caso più emblematico di realtà industriale che, schiacciata da casi giudiziari, è costretta a fare marcia indietro sui piani industriali, avviando dolorose -per quanto necessarie vista l’assenza del pubblico, ad esempio nel settore trasporti- ristrutturazioni, aiutate dalla rimozione d’imperio dei suoi alti dirigenti. Corruzione, spezzatino, clausole di onorabilità. Grillo è stato estremamente preciso, individuando tutte le leve azionate in questi anni per tentare l’assalto ad Eni (e non solo). Tre temi da sventolare sull’onda del legalitarismo tanto caro ai grillini e alla loro base elettorale. Tre temi sui quali far convergere l’opinione pubblica, delineando Eni come la nuova fucina di tangenti, malagestione e tutto il male d’Italia. Corruzione, spezzatino, clausole di onorabilità. Alle tre leve da oggi se ne aggiunge una quarta, che si chiama Beppe Grillo. Filippo Burla www.ilprimatonazionale.it/economia/beppe-grillo-assemblea-soci-eni-23334/
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@NEROITALICO 9 лет назад
Ricatto Bridgestone: stipendi dimezzati o licenziamenti (Il Primato Nazionale) Bari, 30 lug - Lo stabilimento pugliese di Bridgestone, che due anni fa la dirigenza aveva annunciato di voler chiudere, ritorna agli onori delle cronache. E non lo fa per decisioni sulla convenienza produttiva del sito, ma per una (brutta) storia di ricatto occupazionale: condizioni peggiorative, oppure 200 dipendenti andranno a casa. ADVERTISEMENT Facciamo un passo indietro. Nel 2013 il colosso giapponese della produzione di pneumatici annuncia che la fabbrica di Bari sarà soggetta a delocalizzazione. Scarsa rete infrastrutturale, troppo alto il costo dell’energia, troppo asfittica -rectius: in discesa verticale- la domanda interna per continuare a sopportare i costi dello stabilimento. Risultato? 950 persone a rischio licenziamento. Interviene allora il governo e l’azienda fa marcia indietro quando Invitalia, l’agenzia governativa nazionale per l’attrazione degli investimenti, annuncia di contribuire con 12.4 milioni di euro a fondo perduto alla reindustrializzazione. “La firma di oggi è doppiamente importante perché da un lato consente di rilanciare un importante sito produttivo che nei mesi scorsi rischiava la chiusura, dall’altro conferma l’efficacia del Contratto di Sviluppo nel favorire investimenti nel Sud da parte di multinazionali straniere. È la dimostrazione che la semplificazione delle procedure e la riduzione dei tempi sono il miglior incentivo per chi vuole investire“, aveva affermato all’epoca Domenico Arcuri, amministratore delegato di Bridgestone Italia. E veniamo ad oggi, a meno di due anni di distanza. Presi i contributi pubblici, Bridgestone riporta ancora la questione agli onori delle cronache. Secondo quanto si apprende, durante un’infuocata assemblea sindacale sarebbero state messe nero su bianco i dettagli del piano aziendale per la riduzione del costo del lavoro: eliminazione del cottimo, via ad alcuni scatti di anzianità, riduzione delle indennità per lavoro notturno. Ai lavoratori, che dopo l’accordo del 2013 -nel quale avevano perso mensa e mini quattordicesima- avevano già perso circa 400 euro mensili, si chiede così un sacrificio che può arrivare ad altri 300 euro sempre sui 30 giorni. In totale fanno 700 euro in meno in busta nel giro di due anni. “Ci stanno togliendo tutti i diritti in alternativa possiamo andare via, in maniera incentivata: siamo perennemente sotto ricatto”, spiegano i lavoratori. Oltre a ciò, sarebbero confermati quasi 200 licenziamenti, che diventerebbero molti di più qualora il piano non dovesse passare il referendum indetto per oggi. Filippo Burla www.ilprimatonazionale.it/economia/ricatto-bridgestone-stipendi-dimezzati-o-licenziamenti-28306/
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@NEROITALICO 9 лет назад
Ttip: Iglesias assente, la risoluzione passa per due soli voti (Il Primato Nazionale) Bruxelles, 13 giu - Sta montando la polemica, in queste ore in Spagna, sul comportamento tenuto da Pablo Iglesias, carismatica guida del movimento civico Podemos. Il leader dei soprannominati “grillini” spagnoli, che da sempre si dichiara avverso al trattato di libero scambio Europa - Stati Uniti (Ttip - Transatlantic investment partnership) non si sarebbe infatti presentato ad una votazione del parlamento europeo chiamato ad esprimersi sul tema, votazione che si sarebbe poi conclusa con la vittoria del sì, ma con soli due voti di scarto. La votazione incriminata risale a questo mercoledì, quando al plenum dell’assemblea era sottoposta la decisione di rinviare o meno la discussione sul trattato, una manovra ostruzionistica da parte delle opposizioni europee che contestano l’accordo. La votazione sul rinvio era stata accordata il giorno precedente su pressione, fra gli altri, proprio dei deputati di Podemos. Fatto sta che lo scranno di Pablo Iglesias è rimasto vuoto. Secondo una prima ricostruzione, Iglesias non avrebbe potuto partecipare al voto perché impegnato in un confronto radio sull’emittente spagnola Cadena Ser. Peccato che il dibattito sia avvenuto dopo la votazione da parte dell’assise, peraltro l’unica prevista in giornata. Da Podemos hanno tentato allora la carta della mancata informazione: il Parlamento ha avvisato della convocazione la mattina solo la sera precedente, non dando tempo ad Iglesias di prenderne conoscenza visto che il leader era già fra le braccia di Morfeo. Una motivazione che stenta a stare in piedi anch’essa, visto che gli altri membri del movimento erano regolarmente presenti in aula. Rimane allora l’ultima ipotesi, cioé che Pablo Iglesias si sia semplicemente addormentato. E, visti i due soli voti di scarto in una votazione sul fino di lana, la sua presenza avrebbe forse potuto essere determinante. Galeotto fu il sonno. Roberto Derta www.ilprimatonazionale.it/politica/ttip-iglesias-assente-la-risoluzione-passa-per-due-soli-voti-25379/
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@NEROITALICO 9 лет назад
Iran: Gentiloni, Finmeccanica e un mercato da sette miliardi (Il Primato Nazionale) Roma, 11 ago - Appena firmato l’accordo sul nucleare, Francia e Germania non hanno aspettato nemmeno una settimana: politici ed imprenditori si sono letteralmente precipitati a Teheran per approfittare della grande occasione. Il premier italiano Renzi, invece, senza che ci fosse uno spunto significativo, si è recato in Israele per complimentarsi e rassicurare il governo, aspettando oltre ogni misura ragionevole prima di mandare il ministro degli Esteri a Teheran. Il quale arriva già in ritardo, mentre certi ambienti nella Farnesina scalpitano: sanno che l’economia italiana non può permettersi di perdere il treno per l’Iran, un mercato che offre “straordinarie possibilità” per chi intende “giocare la propria partita” anche contro gli agguerriti partner europei. I ministri degli Esteri Paolo Gentiloni e dello Sviluppo economico Federica Guidi, fedeli a quanto annunciato pochi giorni dopo lo storico accordo sul nucleare firmato a Vienna, hanno messo insieme una folta delegazione di ben 15 giornalisti ma pochissimi imprenditori, che pure hanno estrema esigenza di ripresentarsi su quel promettente mercato. Sono volati a Teheran per presentare le aziende italiane e “prenotarsi” per il giorno in cui le sanzioni verranno eliminate, senza però riflettere sul fatto che per togliere le sanzioni il più presto possibile sia necessario anche un impegno ed una certa dose di autorevolezza politica sullo senario occidentale, cosa che in questo momento l’Italia sembra non avere. La cornice politica della missione istituzionale è stata quella dell’incontro tra Gentiloni e il ministro degli Esteri Mohammad Zarif, nel corso del quale è emersa la volontà di tenere collegate le due dimensioni del percorso: politica ed economica. “Quella politica - ha spiegato Gentiloni - perché attraverso l’intesa sul nucleare il nostro obiettivo non è stato solo quello di prevenire dei rischi, ma di creare le condizioni migliori per coinvolgere un paese molto importante nella stabilità della regione, nel contrasto al terrorismo, nella soluzione di diverse crisi locali”. Succede anche questo. Prendete la Siria: prima si contribuisce all’instabilità sostenendo una opposizione distruttiva, oggi si ricorre all’Iran per la stabilità. Ma l’aspetto economico non riveste minore importanza. “Veniamo da un passato glorioso”, ha detto la Guidi, ricordando che l’interscambio tra Italia e Iran era arrivato a toccare i 7 miliardi di euro, per precipitare poi nel 2014 a 1,6 miliardi. Ed è a quel ‘passato glorioso’ che si deve e si può guardare, con l’obiettivo realistico, se ne è detto sicuro Gentiloni, di “arrivare al primo posto” nel giro di un paio d’anni. Per provarci, l’Italia non punterà solo ai settori tradizionali come il petrolio, ma tenterà molte diverse strade. L’illustrazione delle possibilità che l’Italia è in grado di offrire agli iraniani è toccata non solo ai due ministri, ma anche agli imprenditori al seguito, che hanno partecipato all’incontro con il ministro dell’Industria Razeh Nematzadeh. I manager di Finmeccanica, Ansaldo Energia, Cdp, Sace, Fincantieri,Tecnimont, Fsi hanno parlato di elicotteri, energia, navi, servizi finanziari, ma altri settori citati sono stati quelli della gioielleria, delle pelli, del food e anche dell’automotive: l’Iran, ha spiegato la Guidi, vuole raddoppiare la produzione di automobili attualmente ferma a 1,4 milioni di pezzi ed è evidente che una prospettiva del genere può fare gola a tutti, Fca compresa. Qualche risultato concreto, intanto, è già arrivato:non solo è stata rinnovata la collaborazione tra l’Ice e l’agenzia omologa iraniana,ma la Fata, azienda della galassia Finmeccanica, ha firmato un contratto da 500 milioni per la realizzazione di una centrale elettrica a ciclo combinato. Si ricorda che la scorsa settimana é stato il turno dell’Alto rappresentante della politica Estera dell’Unione europea, Federica Mogherini, e del ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius. Mentre dal 7 al 9 settembre é in programma il viaggio della delegazione austriaca che vedrà la partecipazione del presidente Heinz Fischer. Impaziente di sfruttare il potenziale mercato iraniano, anche la Polonia ha annunciato oggi che invierà una sua delegazione, sempre a settembre guidata dal ministro dell’Economia Janusz Piechocinski. “Riguadagnare le quote di mercato perse in Iran non sarà facile, considerando che concorrenti quali Cina, India, Russia e Brasile hanno subito molti meno vincoli negli ultimi anni guadagnandosi una posizione importante all’interno del Paese”, recita il rapporto di Sace, secondo il quale i settori con le maggiori opportunità da cogliere saranno soprattutto nel settore del petrolio e del gas, in quello automobilistico, nella difesa, nei trasporti, nel real estate e più in generale dei settori legati alle costruzioni. Non mancano le parole superflue del ministro degli Esteri Italiano che crede ancora che l’Europa abbia calmato la Repubblica Islamica dell’Iran e non che il vecchio continente abbia sbagliato tutto, finendo per spaventarsi dell’ondata terroristica per la quale aveva preparato il terreno. Le sanzioni cui è stato sottoposto l’Iran hanno danneggiato di più l’Europa che non il paese mediorientale. È quanto affermato dal presidente della commissione Sicurezza Nazionale e Affari Esteri dell’assemblea parlamentare iraniana, Alaeddin Oroujerdi, intervistato da “Agenzia Nova” presso la sede del parlamento di Teheran. A poche settimane dalla chiusura dell’accordo sul nucleare iraniano, in attesa che il Congresso statunitense e il Parlamento di Teheran lo ratifichino, Boroujerdi ha parlato di “ingerenze inaccettabili” ai danni della sovranità nazionale del suo paese sul tema del nucleare che ha rivendicato come un “diritto” dell’Iran: “Dieci anni fa noi ci rivolgemmo alle nazioni europee,affinché ci fornissero la tecnologia e l’assistenza necessari alla realizzazione del nostro programma nucleare. In risposta, dall’Occidente abbiamo ricevuto sanzioni e siamo stati costretti a rivolgerci ad altri paesi per essere assistiti e riforniti di quanto ci occorreva”. Secondo Boroujerdi, con questo atteggiamento l’Europa ha perso una grande opportunità, ma soprattutto “ci ha imposto un regime di sanzioni, senza rendersi conto che di averle in realtà applicate contro se stessa. Con l’Italia, per esempio, prima delle sanzioni avevamo un interscambio commerciale del valore di circa 7 miliardi, calato in questi anni sotto il miliardo“. Ma è l’Italia, secondo il politico iraniano, ad aver pagato maggiormente lo scotto delle difficoltà diplomatiche di questi anni, avendo potuto Teheran rivolgersi altrove per perseguire i propri scopi e salvaguardare i propri interscambi economici. di Mohamad Ballout (Teheran) Talal Khrais (Beirut) a cura di Alberto Palladino www.ilprimatonazionale.it/esteri/iran-gentiloni-finmeccanica-e-un-mercato-da-sette-miliardi-28853/
@NEROITALICO
@NEROITALICO 8 лет назад
Emirati, Qatar e Kuwait: la longa manus dei paesi arabi sull’economia italiana Roma, 30 mar - Se il Belgio piange, l’Italia non ride. Se Bruxelles è la capitale di uno Stato quinta colonna (anche “spirituale”) dei Sauditi in Europa, dalle parti della nostra penisola siamo invece più instradati sul colonialismo economico da parte degli arabi. Quasi da far invidia alle note conquiste francesi passate agli onori delle cronache, mentre quelle del Golfo - un po’ come le cinesi - arrivano sempre quatte quatte, come a non voler far sapere di esserci. Siamo nell’ambito delle operazioni chirurgiche, ma il bisturi in realtà scende molto a fondo. E pervade di tutto. Senza voler andare troppo indietro nel tempo, in principio fu il Kuwait. Correva l’anno 2013 e il locale fondo sovrano firmò i primi due accordi con il Fondo Strategico Italiano per entrare in settori classici del Made in Italy come moda, alimentare e turismo. Un miliardo l’impegno finanziario. Nel 2014, poi, durante una visita ufficiale e appena prima della sua caduta, Enrico Letta riuscì a racimolare ulteriori 500 milioni, per altri generici “investimenti”. Che poi non siano investimenti ma debito (debito estero, per la precisione), è un altro discorso. Sempre nello stesso anno, quando ormai Renzi aveva messe le mani saldamento su Palazzo Chigi, è arrivata la conclusione della lunga trattativa che ha portato Etihad a divenire partner di Alitalia. Una partecipazione non di maggioranza assoluta (appena al di sotto del 50%) sufficiente però ad assicurare al vettore di Abu Dhabi un fattivo controllo sull’ex compagnia di bandiera. L’alleanza è diventata operativa a partire dal gennaio 2015, mentre Alitalia ha nel frattempo ceduto al nuovo socio alcuni dei suoi slot su Londra, un esempio che certifica i veri rapporti di forza. La lista di operazioni è sterminata. Lo scorso settembre nel giro di pochi giorni il Qatar ha messo le mani sul Westin Excelsior, albergo di Roma reso celebre da “La Dolce Vita” di Federico Fellini. E due giorni prima Mubadala, fondo sovrano sempre di Abu Dhabi, aveva completato la scalata per il 100% di Piaggio Aerospace. Il Fondo Strategico Italiano, poi, oltre alla joint venture con il Kuwait ne ha avviata una seconda con capitali provenienti da Doha per, ancora, “investimenti” in realtà tricolori. E non aziende da poco dato che il Fondo detiene partecipazioni in realtà come Saipem, Ansaldo Energia, Rocco Forte Hotels, Trevi, Metroweb, Hera. Il Fsi era stato creato, nel 2011, dall’allora ministro Giulio Tremonti proprio per evitare interventi ostili da parte dell’estero. E’ diventato il cavallo di Troia per i saldi nazionali. Filippo Burla, Il Primato Nazionale www.ilprimatonazionale.it/economia/arabi-economia-italiana-42617/
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@NEROITALICO 8 лет назад
Altro che debito pubblico: le privatizzazioni servono a coprire le perdite sui derivati (Il Primato Nazionale) Roma, 25 apr - Quasi 7 miliardi di perdite nel 2015. 6.8 per la precisione, ma non saranno duecento milioni a fare la differenza. L’Italia è il paese che nel 2015 ha perso, sui derivati, l’ammontare più elevato di tutta l’area euro. A riportarlo è uno studio Bloomberg su dati Eurostat. Allargando la visuale agli anni precedenti, la situazione non migliora: dal 2012 ad oggi, infatti, un’evidentemente non accorta politica finanziaria ha fatto perdere alle casse dello Stato oltre 21 miliardi di euro. I derivati nascono come strumento di tutela dagli scossoni del mercato: dopo la crisi dello spread del 2011, dal ministero dell’Economia furono stipulati numerosi contratti di copertura, al fine di alleviare le sofferenze sull’immane molte di debito pubblico. Una strada scelta da molti paesi, i cui risultati sono stati però ondivaghi. Nei quattro anni, ad esempio, la Germania ha perso 5 miliardi e la Spagna 500 milioni, mentre Irlanda e Grecia - due fra i paesi più duramente colpiti dalla crisi - hanno addirittura guadagnato, rispettivamente, 100 e 500 milioni. Peggio è andata invece a noi, che con i nostri 21 miliardi di rosso superiamo da soli le perdite della restante intera eurozona. Calando il debito calerà anche la necessità di affidarsi alla finanza strutturata e si potranno quindi ridurre i rischi, è il ragionamento. E come verrà ridotto il debito? La strada indicata da Renzi e Padoan è nota: dalle privatizzazioni arriveranno i miliardi utili allo scopo. Una via già tentata in passato, ma che oltre a problemi di natura contabile (cedere una cosa che rende X per ripagare un qualcosa d’altro che rende meno di X si chiama svendita) nasconde una verità: nel 2015 gli introiti da privatizzazioni, fra Poste, Enel e altre, hanno totalizzato 6.6 miliardi. Vale a dire quasi la stessa cifra che abbiamo pagato per le perdite sui derivati. Analogo discorso per quest’anno, quando con Ferrovie ed Enav l’introito assommerà - secondo ipotesi conservative - a circa 7 miliardi. Filippo Burla www.ilprimatonazionale.it/economia/derivati-privatizzazioni-debito-pubblico-43994/
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@NEROITALICO 9 лет назад
Ecco gli investimenti esteri: Whirlpool annuncia 1300 licenziamenti (Il Primato Nazionale) Roma, 17 apr - La chiusura di due siti produttivo, il ridimensionamento degli altri, oltre 1300 lavoratori a casa e un centro ricerca che serrerà i battenti. E’ questo il piano industriale lacrime e sangue annunciato ieri da Whirlpool, la multinazionale statunitense degli elettrodomestici. Ancora grave la crisi del settore del “bianco” in Italia secondo la dirigenza Whirlpool, che deve così fare i conti con una crisi da sovrapproduzione. O, per meglio dire, da drastico calo della domanda interna. Ecco allora le scelte che incidono sulla carne viva di quel che fu un settore trainante negli anni del miracolo economico, nel quale fino agli anni ’80 e ’90 l’Italia vantava un primato mondiale. A chiudere sarà lo stabilimento di Caserta e uno fra quelli marchigiani di Fabriano e Albacina, oltre al magazzino e centro ricerca di None, in provincia di Torino. Si tratta dei siti ex Indesit, marchio storico acquisito da Whirlpool nel luglio dello scorso anno. A rischiare il posto sono in totale 1350 lavoratori, la maggior parte dei quali (800) a Caserta. Tali scelte si rendono necessarie, secondo Whirlpool, per proseguire sul piano di investimenti per 500 milioni. Una parte degli esuberi erano già previsti dal piano di salvataggio Indesit. Whirlpool ha però rilanciato, alzando l’asticella con quasi 400 unità aggiuntive. Questo nonostante “l’impegno dell’azienda a rispettare quanto stabilito nell’accordo del 2013, che escludeva qualsiasi licenziamento unilaterale fino al 2018“, ha commentato non senza stupore il ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi. Meno di un anno fa, Renzi vantava di aver “personalmente parlato con gli americani a Palazzo Chigi”, definendo l’acquisizione di Indesit “un’operazione fantastica“. In un’intervista al Corriere della Sera, aveva anche rilanciato: “Non si attraggono gli investimenti esteri riscoprendo una visione autarchica e superata del mondo”. “Whirlpool cannibalizza la Indesit dichiarando la chiusura di tre siti e 1.350 esuberi. E’ questa -si chiede Fabrizio Bassotti, della Fiom di Fabriano- l’operazione fantastica di cui parlava Renzi?” Filippo Burla www.ilprimatonazionale.it/economia/whirlpool-annuncia-1300-licenziamenti-21532/
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@NEROITALICO 9 лет назад
Ascesa inarrestabile del debito pubblico: 2.218,2 miliardi (Il Primato Nazionale) Roma, 15 lug - Inarrestabile l’ascesa del debito pubblico italiano. Secondo i dati diffusi da Banca d’Italia nel Supplemento “Finanza pubblica, fabbisogno e debito”, il debito delle Amministrazioni pubbliche è aumentato solo a maggio di 23,4 miliardi a 2.218,2 miliardi di euro. Secondo l’istituto di via Nazionale, l’incremento del debito è stato superiore al fabbisogno del mese per un totale di 4,3 miliardi di euro. Le cause sono da imputarsi principalmente all’aumento delle disponibilità liquide del Tesoro (+ 17,8 miliardi). Complessivamente la rivalutazione dei titoli indicizzati all’inflazione, il deprezzamento dell’euro e l’emissione di titoli sopra la pari hanno accresciuto il debito per 1,3 miliardi. Il debito delle Amministrazioni centrali è aumentato di 22,9 miliardi, mentre quello delle Amministrazioni locali di 0,5 miliardi. Invariato il debito degli Enti di previdenza. Le entrate tributarie contabilizzate nel bilancio dello Stato sono state pari a maggio a 31 miliardi, stabili rispetto allo stesso mese del 2014. Nei primi cinque mesi del 2015, invece, le entrate tributarie, complessivamente pari a 146,2 miliardi, hanno registrato un lieve aumento su quelle relative allo stesso periodo dell’anno precedente (145,4 miliardi). L’Abi ha fornito in contemporanea il consueto rapporto mensile che evidenzia come le sofferenze lorde degli istituti bancari italiani sono risultate a maggio pari ad oltre 193,7 miliardi, dai 191,6 miliardi di aprile 2015 (pari al 12% del Pil italiano). Sale così il rapporto sofferenze lorde su impieghi giunto a maggio al 10,1% (era all’8,9% un anno prima e al 2,8% a fine 2007), valore che raggiunge il 17% per i piccoli operatori economici, il 17,2% per le imprese e il 7,2% per le famiglie consumatrici. Anche le sofferenze nette registrano a maggio 2015 un aumento, passando da 82,3 miliardi di aprile a 83,4 miliardi di maggio. Il rapporto sofferenze nette su impieghi totali è risultato pari al 4,62% a maggio 2015 dal 4,56% di aprile 2015 (4,24% a maggio 2014; 0,86%, prima dell’inizio della crisi). Giuseppe Maneggio www.ilprimatonazionale.it/economia/ascesa-inarrestabile-del-debito-pubblico-2-2182-miliardi-27388/
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D’ATTORRE (PD) CONFESSA TUTTO! Non avrei mai creduto di ascoltare parole tanto chiare dall’esponente del Governo che in collaborazione con il cartello affaristico della Troika sta gestendo l’assassinio di questo Paese e dell’Europa tutta. D’Attorre fa due affermazioni coraggiose: Il Jobs Act ha l’obiettivo di produrre una DIMINUZIONE DEI SALARI, così come richiesto da Draghi all’Italia, per riallineare (verso il basso) la competitività delle nostre aziende rispetto al resto d’Europa Il nostro Governo si è impegnato su indicazione della Troika a mantenere un obiettivo di DISOCCUPAZIONE NON INFERIORE AL 12% (si chiama “Disoccupazione Strutturale”) che ha lo scopo di evitare pressioni inflazionistiche. ASCOLTA L’INTERVISTA DI D’ATTORRE ru-vid.com/video/%D0%B2%D0%B8%D0%B4%D0%B5%D0%BE-coQ6szOr4sk.html (ascoltare assolutamente al minuto 7:48, ne vale la pena!) Ora, se questo lo avesse detto qualche sedicente economista alternativo, qualche premio Nobel in cerca di notorietà, qualche complottista di quelli che girano….potevo capirlo. Ma sentirmelo sbattere in faccia da D’Attore, uno che considero parte dell’ala moderata della compagine governativa, mi fa salire la rabbia e mette a dura prova la mia capacità di distacco. Una volta ancora ho ed abbiamo (assieme a chi lo dice da tempo) sbagliato per difetto, abbiamo sottovalutato il fenomeno quando dicevo e dicevamo che l’unico obiettivo che interessa la Troika è il valore della LORO moneta, e la minaccia a tale valore è rappresentato dall’inflazione. Il resto, TUTTO il resto, non conta. Ecco dunque che hanno inventato la crisi e la conseguente falsa necessità di austerità che, sempre secondo il loro copione, si risolve imponendo politiche deflattive, cioè di SVALUTAZIONE, che riguardano i salari, i nostri immobili, le nostre aziende. Così la loro moneta mantiene un valore stabile e, al tempo stesso, i beni del nostro Paese, e la nostra forza lavoro, possono essere comprati a sconto, come sta accadendo ogni giorno. I giornalisti, i politici, gli imprenditori, i professionisti che NON denunciano questa aggressione ne sono complici e hanno le stesse responsabilità degli aggressori. Non c’è più spazio per posizioni neutrali. Alberto Micalizzi albertomicalizzi1.wordpress.com/2015/07/03/dattorre-pd-confessa-tutto/
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SvendItalia: al via collocamento seconda tranche di Poste Italiane Roma, 1 giu - Il governo ha approvato il decreto con il quale verrà collocata in borsa, anche in più tranche ma comunque entro la fine dell’anno, il 29.7% residuo di Poste Italiane in mano all’esecutivo, dopo il passaggio del 35% della società a Cassa Depositi e Prestiti avvenuto pochi giorni fa. Il decreto si è reso necessario in quanto, all’atto della quotazione lo scorso ottobre, era stato stabilito che il ministero dell’Economia non potesse scendere al di sotto del 60% del capitale. La scelta di procedere alla cessione di un’ulteriore quota della s.p.a. guidata da Francesco Caio si inserisce all’interno del piano di privatizzazioni che, oltre a coprire le perdite sui derivati stipulati dal Tesoro, punta a far cassa per affrontare - su indicazione dell’Europa, con obiettivo mezzo punto di Pil quest’anno - il tema dell’indebitamento sovrano. I proventi derivanti dalla vendita delle azioni sono stimati fra i 2.7 e i 3 miliardi, vale a dire lo 0.13% degli oltre 2300 miliardi di debito pubblico. Non proprio una gran percentuale, ancora di più se si considera che il rendimento del titolo - stante il dividendo 2016 - è attorno al 3.6%, superiore rispetto sia al costo medio ponderato del debito pubblico che del rendimento dei Btp, titoli che rappresentano quasi il 70% del totale e che “costano” allo Stato, nella peggiore delle ipotesi e con riferimento alle ultime emissioni, meno del 2.8%. Ecco: quella differenza di quasi un punto percentuale è la perdita netta che si ha sul lungo termine a fronte di un incasso immediato. Come se si vendesse la propria casa per poi restarci a vivere in affitto. Filippo Burla, Il Primato Nazionale www.ilprimatonazionale.it/economia/poste-italiane-privatizzazione-seconda-tranche-45802/
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Svendita Italia: Italcementi passa ai tedeschi di Heidelberg (Il Primato Nazionale) Roma, 29 lug - HeidelbergCement, società tedesca di cementi e calcestruzzi, ha annunciato nella serata di ieri di aver raggiunto l’accordo per l’acquisizione del pacchetto di maggioranza relativa di Italcementi, storica realtà italiana che affonda le sue radici nel lontano 1864. In Germania finirà il 45% del capitale attualmente detenuto dalla famiglia Pesenti, al comando dell’azienda da oltre cent’anni. Non si tratta di una cessione tout court, ma di un’operazione più strutturata. Per ogni azione verranno pagato 10.6 euro, assommando così il valore totale a 1.67 miliardi. Allo stesso tempo, ai Pesenti verrà riservato un aumento di capitale che li porterà a salire fra il 4 ed il 5.3% (a seconda di quando sottoscritto) di Heidelberg. La famiglia bergamasca sarà così il secondo socio industriale, dopo la famiglia Merkle che manterrà il solido controllo sulle sorti aziendali. Italcementi è un gruppo che ha fatto la storia del capitalismo e dell’economia italiane. Ma non solo: oltre ai 5000 dipendenti nel territorio nazionale, la società è presente in ogni parte del mondo, non potendo quindi ridurla allo stereotipo dell’imprenditoria italiana poco orientata verso l’internazionalizzazione. Rimarrà negli annali l’acquisizione, nel 1992, di Ciment Francais, azienda grande pressoché il doppio di Italcementi ma in grave difficoltà finanziaria. Operazione che permise alla famiglia Pesenti di bilanciare il proprio fatturato, fino ad allora quasi del tutto concentrato in Italia. Da lì in avanti, una serie di mirate operazioni verso l’estero che porteranno l’impresa ad essere fra i leader globali. Con un occhio anche alla ricerca: sono numerosi i materiali innovativi che escono dai laboratori di ricerca e sviluppo, fra cui ad esempio il cemento biodinamico utilizzato per la costruzione di Palazzo Italia all’Expo di Milano. Al termine dell’acquisizione, il gruppo Heidelberg-Italcementi sarà il secondo al mondo nel settore di cementi e calcestruzzi. Rispettando anche i rispettivi mercati: l’acquisizione di Italcementi consentirà infatti a HeidelbergCement, “grazie alla perfetta complementarietà geografica, di espandere il proprio portafoglio migliorando ulteriormente la diversificazione fra Paesi emergenti e Paesi maturi”, si legge in una nota della società. Il controllo, però, sarà saldamente passato all’estero. E’ vero che i Pesenti manterranno una quota rilevante, ma comunque di minoranza. “Un imprenditore sa che l’importante è garantire lo sviluppo futuro dell’attività più che arroccarsi nella continuità del controllo dell’azienda”, ha dichiarato Giampiero Pesenti, presidente della holding Italmobiliare che detiene il 45% di Italcementi oggetto dell’accordo. Una frase che sembra più una dichiarazione di resa di fronte alla continua svalutazione interna italiana, che si traduce in continue vendite delle maggiori quote azionarie di società nazionali. Fra le quotate, nella scorsa estate i titoli in mano a stranieri erano il 41%. Sono diventati il 44% ad inizio di quest’anno e grazie a recenti operazioni come Pirelli e, appunto, Italcementi, ormai la soglia della metà è sempre più a portata di mano. Filippo Burla www.ilprimatonazionale.it/economia/svendita-italia-italcementi-passa-ai-tedeschi-di-heidelberg-28228/
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Draghi e il golpe finale: “Italia, è il momento di cedere del tutto la sovranità” Firenze, 10 Agosto - “Per i paesi dell’Eurozona è arrivato il momento di cedere la sovranità all’Europa per quanto riguarda le riforme strutturali”. Suona come un requiem per l’Italia l’ultima uscita di Mario Draghi, a margine di una riflessione sulla recessione che è tornata a colpire il nostro Paese. “Uno dei componenti del basso Pil italiano è il basso livello di investimenti privati.” Ha detto. Tutto questo a causa dell’incertezza sulle riforme, “un freno molto potente che scoraggia gli investimenti”. E in chisura, l’augurio che l’Italia faccia la fine della Grecia. Dopo l’austerity “d’emergenza” quindi, è tempo di passare a quella perpetua, sotto l’egida della Troika.Un processo già visto ad Atene, durante i tragici mesi del “riordino di bilancio” che ha portato il paese ellenico a cedere la sua sovranità ai funzionari di Bruxelles. Con un crollo verticale del livello di benessere e la chiusura di numerosi servizi pubblici. Il Premier Renzi ha risposto alle parole del presidente della BCE dicendo: Io sono d’accordo con Draghi, Il Presidente della BCE ha detto una cosa sacrosanta”. Incalzato sulla cessione di sovranità, Renzi si è limitato ad evadere la questione, dicendo che Draghi “Ha fatto un ragionamento più ampio sull’Europa. Non ha detto che l’Italia deve andare verso una cessione di sovranità” sulle riforme ma “ha parlato di Eurozona”. Ma sulla prospettiva di una nuova ondata di tagli alla spesa Renzi non scappa: la manovra “ci sarà” e dovrà portare ad un risparmio di 16 miliardi di euro entro il 2015. Date le premesse, non basterà ridurre qualche stipendio eccellente per raggiungere l’obiettivo. E già alla BCE si preparano ad un nuovo giro di indebitamenti: le sanzioni contro la Russia, appena approvate, costeranno soltanto all’Italia un danno da 700 milioni di euro. Per l’Europa sarà, prevedibilmente un massacro. A quel punto servirà un nuovo ricorso al finanziamento tramite emissione di titoli di Stato, che Draghi so prepara ad acquistare “su larga scala”. L'ITALIA NON E' IN VENDITA, CRIMINALI! Francesco Benedetti www.ilprimatonazionale.it/2014/08/10/draghi-e-il-golpe-finale-italia-e-il-momento-di-cedere-del-tutto-la-sovranita/
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Commercio, è strage di giovani: in 25mila costretti a chiudere Roma, 15 mag - Un saldo di più di 8mila imprenditori commerciali in meno, principalmente a causa della chiusura delle attività di oltre 25mila giovani sotto i 40 anni. Se la ripresa, stando almeno alle parole del ministro Padoan, sembra essere alla portata di mano, questa non passerà - per il momento - almeno dal settore del commercio, che nei primi mesi dell’anno conferma la tendenza al ribasso. E’ quanto emerge da uno studio dell’Osservatorio Confesercenti sulle imprese del commercio e del turismo. Nel trimestre gennaio-marzo, spiegano dall’associazione, titolari e soci d’impresa sotto i quarant’anni sono diminuiti di oltre 25mila unità, mentre sono aumentati di 17mila gli imprenditori oltre quella soglia di età nello stesso settore. Il risultato è un’emorragia continua, che attesta nel trimestre a -8mila il numero di attività in essere. A pesare, oltre alla mancata ripresa, è soprattutto la deflazione, con il ribasso continuo dei prezzi che porta - almeno a livello aggregato - ad un rinvio degli acquisti, strozzando così il commercio. Scendendo nel dettaglio dei dati, la parte del leone la fa la distribuzione moda, che vede scomparire quasi 3mila titolari, seguita dalla seguita dalla ristorazione mobile, il cosiddetto ‘street food‘ che sente la crisi nonostante il boom, che perde più di 2mila unità, per finire con i bar, che sfiorano le 2mila chiusure nonostante la liberalizzazione abbia aiutato l’apertura delle attività. “Dati allarmanti”, spiega il segretario di Confesercenti, Mauro Bussoni, “che dimostrano come, in un mercato globalizzato e competitivo come quello attuale, improvvisarsi imprenditori sia una missione ormai quasi impossibile. Migliaia di giovani, la fascia più colpita dalla disoccupazione, tentano ogni anno la via dell’impresa, aprendosi un negozio o un pubblico esercizio per crearsi da soli quel posto di lavoro che per loro, purtroppo non c’è. Chiediamo che venga messa in campo anche un piano di sostegno alle nuove imprese per traghettarle verso il consolidamento, riducendone le imposte per i primi anni di vita ed estendendo anche ad esse i provvedimenti di fiscalità agevolata”. Filippo Burla www.ilprimatonazionale.it/economia/25mila-giovani-chiusura-commercio-44975/
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@NEROITALICO 10 лет назад
EUROPEE 2014 andate a votare per qualsiasi partito antisistema, Anti-UE, Anti-Euro, Anti-Immigrazione, Anti-Mondialista. La LEGA forse è quel partito che paradossalmente garantisce più tutela degli interessi nazionali. In Europa con Front National di Marin Le Pen, con Alba Dorata, con lo Jobbik, con i nazionalisti dell'Ukip (che potrebbe essere il primo partito inglese) e insieme a tutte le altre componenti politiche Nazionaliste ed Identitarie, per far rinascere una nuova Europa, fuori dall'Euro e fuori dai giochi usurocratici dei banchieri che ci prestano la loro moneta a strozzo, fuori dalle logiche globalizzate e mondialiste d'oltre oceano. Viva l'Italia, Viva l'Europa delle Nazioni!
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Come la Grecia: l’Italia vende i suoi porti (Il Primato Nazionale) Roma, 21 ago - L’Italia non è come la Grecia. Non lo è per il potenziale economico che rappresenta. Perchè nonostante i lunghi anni di crisi restiamo pur sempre la terza economia dell’Eurozona. Ma soprattutto per quella capacità produttiva industriale che gli ellenici non hanno mai avuto più rivolti ad un’economia di tipo primario. E quindi, l’Italia non è come la Grecia ma a volte la imita e ne segue pedissequamente le stesse orme. E’ notizia recente che Invitalia, una società controllata dal Ministero del Tesoro, abbia deciso di mettere in vendita cinque marine turistiche per un patrimonio complessivo stimato in 50 milioni di euro. L’Italia non è la Grecia, ma come il paese ellenico si mettono all’asta alcuni dei porti più prestigiosi lungo litorali meta del turismo d’élite. E così scopriamo che all’asta sono finiti i moli di Capri, la marina d’Arechi nel golfo di Salerno, la marina di Portisco in Costa Smeralda, il porto delle Grazie a Roccella Jonica, in Calabria e l’area di Porto Lido a Trieste. Nel computo totale si parla di circa 25 mila posti per le imbarcazioni, in zone che Invitalia dieci anni fa intendeva valorizzare per attirare investimenti e promuovere lo sviluppo turistico dei porti. Poi sono arrivati i problemi giudiziari a carico dell’amministratore delegato di Invitalia Domenico Arcuri e del capo della gestione smaltimento rifiuti di Roma Manlio Cerroni, indagati per frode e abuso d’ufficio. I ritardi nella pubblicazione del bando hanno ulteriormente disseminato di ostacoli l’operazione di dismissione dei moli che ancora oggi presenta non pochi dubbi. Due parlamentari del Pd, Vincenza Bruno e Nicola Stumpo, nel frattempo, firmano un’interrogazione parlamentare nella quale evidenziano come le modifiche apportate da Invitalia al bando di dismissione dei moli, presentino nel dettaglio alcune anomalie, come la riserva di una quota del 31% a favore di enti e/o imprese pubbliche. Una modifica che a detta dei due parlamentari introduce una limitazione di acquisto ai privati che in sostanza si concretizza in una palese agevolazione a favore degli enti comunali interessati all’acquisto. Nessun segreto quindi nel caso di Roccella Jonica, dove lo stesso ente comunale ha formulato un’offerta di acquisto a Invitalia nonostante sia presente una norma che impedisce ai comuni con meno di 30 mila abitanti di detenere partecipazioni. O a Capri dove il consiglio comunale ha deliberato l’acquisto del 49% della partecipazione del porto obbligando Invitalia a non cedere la rimanente quota a privati. E difatti fra le buste d’asta presentate c’è quella del confinante comune di Anacapri. Insomma, siamo di fronte ad una “creativa” ed “innovativa” nuova formula di privatizzazione dove lo Stato vende ai comuni cedendo oneri e diritti come se fosse un sistema di vasi comunicanti. Da una parte abbiamo il Pd che spinge, nella più fedele ortodossia liberista, verso la privatizzazione selvaggia, dall’altra le esigenze di spartizione borbonica tipiche della politica italiana. No, l’Italia non è come la Grecia, ma a volte riesce ad essere anche peggio. Giuseppe Maneggio www.ilprimatonazionale.it/economia/come-la-grecia-litalia-vende-i-suoi-porti-29343/
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@NEROITALICO 8 лет назад
SvendItalia: il governo pronto a cedere un’altra quota di Poste Italiane Roma, 26 mar - Altro giro, altra corsa. Slitta al 2017 la quotazione a Piazza Affari di Ferrovie dello Stato (prevista per quest’anno), ma entra una nuova tranche - si parla del 35% - di Poste Italiane. E questa è una sorpresa, perché dopo il collocamento del 35% lo scorso ottobre non sembravano essere in programma altre operazioni sul capitale della società. L’esigenza di procedere ad un’ulteriore vendita di azioni si innesta nel piano che punta a raccogliere 8 miliardi di euro l’anno (lo 0.5% del Pil) con l’obiettivo di ridurre di una pari quota la mole di debito pubblico. Stando agli attuali valori di Borsa, dalla cessione dell’ulteriore quota il governo incasserebbe circa tre miliardi. Altri due (ottimisticamente) potrebbero arrivare da Enav, anch’essa in procinto di sbarcare sui mercati. Ne rimarrebbero altri tre da racimolare in qualche modo. Il principale problema, tuttavia, sta nel Dpcm varato in occasione della privatizzazione di Poste e nel quale si prevedeva che il governo non scendesse al di sotto del 60% della società guidata da Francesco Caio. Al di là del lato “tecnico”, dal punto di vista sia societario che economico la ventilata cessione presenta profili di rischio non indifferenti. La presenza dell’esecutivo scenderebbe infatti al 30% di Poste Italiane: una quota analoga a quelle già detenute in altre società come Finmeccanica, Enel ed, indirettamente, anche Eni. Proprio quest’ultima, però, rappresenta un esempio dei pericoli: nonostante ministero dell’Economia e Cassa Depositi e Prestiti controllino oltre il 30% del gruppo, questo non ha impedito (complice anche una gestione della partecipazione che si limita alla nomina degli amministratori e poco più) di finire “sotto” in assemblea già in più occasioni. Lo stesso potrebbe succedere per Enel, dove il ministero è addirittura sceso sotto il 25%. E perché non anche con Poste, a questo punto? Se i fondi e gli altri azionisti fanno fronte comune, la loro minoranza può diventare maggioranza. Come successo ad esempio in Telecom. Secondo elemento di criticità è dal lato economico. Nel 2015 Poste Italiane ha segnato oltre 550 milioni di utile, garantendo al ministero un dividendo da circa 280 milioni. Vale a dire un rendimento lordo che supera il 4%. Dall’altra parte, invece, il costo medio del debito pubblico non supera meno della metà di tale valore. Ciò significa che Padoan sta cedendo qualcosa che rende X per rimborsare qualcosa che costa metà X, per una perdita secca pari alla differenza. E per fortuna che il titolare di via XX Settembre è stato professore universitario di economia. Filippo Burla, Il Primato Nazionale www.ilprimatonazionale.it/economia/cessione-quota-poste-italiane-42412/
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@NEROITALICO 9 лет назад
Pirelli e altri: perché la Cina compra in Italia? (Il Primato Nazionale) Roma, 25 mar - L’ingresso di China National Chemical Corporation, altrimenti nota come ChemChina, nel capitale di Pirelli, solleva non pochi dubbi sulla tenuta del capitalismo nazionale italiano nei confronti nei concorrenti globali. L’Italia sarà in grado di resistere alle sirene cinesi? L’operazione Pirelli non è stata la prima e nemmeno sarà l’ultima della sua specie. I casi di Mediobanca, Eni, Cdp Reti (Terna e Snam) sono i più noti, ma Pechino è abile nel diversificare e puntare -spesso in silenzio- verso strategie più di ampio respiro e lungo termine. La Cina ogni anno reinveste almeno all’estero risorse nell’ordine degli oltre 100 miliardi di dollari. L’Italia è la seconda meta europea preferita, la quinta al mondo: nel solo 2014 gli investimenti diretti nel nostro paese sono stati circa 3 miliardi. Di questi, 2.1 per l’acquisto del 35% di Cdp Reti. La disponibilità di queste risorse viene dalle riserve accumulate nel tempo, in larga parte grazie all’apertura commerciale su scala mondiale che ha permesso alle imprese occidentali le pratiche di delocalizzazione produttiva, andando alla ricerca di condizioni di lavoro peggiorative ma utili per abbattere i costi. Una pratica commerciale scorretta, ma che da parte sua è stata consentitva dalla totale assenza di una qualsiasi forma di politica doganale che potesse contrastarla. Così, i miliardi di cui la Cina dispone non sono altro che -in buona parte- risorse trasferite da quella stessa parte di mondo che ora sta finendo nel suo mirino. Non si tratta, tuttavia, di una mera questione finanziaria. Pechino non ha, vale a dire, interesse ad investire nell’ottica di ottenere una rendita, come fosse un socio qualunque. Il caso di Pirelli è emblematico: nonostante la sede e il centro di ricerca rimarranno in Italia, come previsto dall’accordo, ChemChina otterrà significative concessioni in termini di governance, nominando sì un numero di consiglieri di amministrazione pari a quelli nominati dai soci italiani, ma garantendosi la scelta del presidente del Cda che, in caso di parità fra voti a favore e contrari su una determinata decisione, potrà esprimere un voto doppio, superando così eventuali scoglio. Analogo discorso -sia pur senza maggioranza- vale anche per Snam e Terna, nelle quali State Grid Corporation of China ha già provveduto all’indicazione dei consiglieri da collocare. La strategia cinese è quindi tutt’altro che finanziaria ma, al contrario, prettamente industriale. Nonostante i recordo sulle richieste di brevetti, fra Shanghai e Guangzhou hanno bisogno, per sostenere una crescita sempre vicina alle due cifre (in media il 10% l’anno negli ultimi tre decenni), di continuare ad acquisire tecnologie e competenze. E dove farlo, se non in realtà centenarie che hanno nel tempo accumulato un bagaglio di conoscenze, malizie e capacità applicative? Ecco allora l’ingresso in AnsaldoEnergia, ecco l’acquisto delle quote di Ferretti (nautica), ecco le numerosissime operazioni condotte con con le piccole e medie imprese, sconosciute ai più, ma sulle quali le banche del fu Celeste Impero hanno ricevuto l’ordine dal governo di sostenere acquisizioni o joint venture, spesso non paritetiche. Ed è proprio il ruolo politico a fungere da volano per la marcia “commerciale” di Pechino verso l’estero. State Grid Corporation, ChemChina, People’s Bank of China -i principali protagonisti dello shopping in Italia- hanno tutti un elemento in comune: sono di proprietà pubblica. Tramite questo controllo diretto il governo si garantisce l’utilizzo di importanti leve al fine del perseguimento dei suoi scopi di politica economica ed estera. Una strada che l’Italia e l’Europa hanno abbandonato da almeno un quarto di secolo, senza essere in grado di costruire modelli alternativi di sviluppo. E che ci sta sempre più esponendo alla colonizzazione industriale. Filippo Burla www.ilprimatonazionale.it/economia/pirelli-e-altri-perche-la-cina-compra-in-italia-19688/
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Euro ed Europa: come riconoscere un ciarlatano? (IL Primato Nazionale) Roma, 1 mar - Nella cloaca massima che viene comunemente chiamata “informazione”, nuotano da sempre i topi della disinformazione, che amano pascersi dell’ignoranza altrui per deviare l’opinione pubblica verso idee quantomeno fallaci. Il dibattito economico sull’euro -ed in generale sul modello di sviluppo di cui euro ed europa unita sono la punta di diamante- non fa ovviamente eccezione, e quindi diventa fondamentale saper distinguere i ciarlatani dagli esperti. Tanto per dirne una, fin da quando è scoppiata la crisi dello “spread”, è andato di moda dare la colpa a Washington che avrebbe colto la palla al balzo per far saltare un “pericoloso concorrente”. Peccato che le statistiche della Banca dei regolamenti internazionali di Basilea (liberamente consultabili da chiunque abbia un minimo di pazienza) ci informino che la quantità di euro presenti nelle riserve internazionali pre-crisi siano nello stesso ordine di grandezza di quelle precedentemente nominate in franchi e marchi. L’euro non impensierisce il dollaro ne lo ha mai impensierito. Chi, quando parla dell’euro, a qualunque titolo, accenna ad un qualche presunto complotto anglo-americano contro il medesimo è un ciarlatano e non va considerato degno di parlare. Possiamo andare oltre: si dice che l’obiettivo finale sia quello degli Stati Uniti d’Europa, o Europa Nazione o quello che vi pare a seconda delle vostre preferenze politiche, e che quindi non bisogna uscire dall’Ue ma anzi accelerare l’integrazione politica. Peccato che per avere unità politica sia necessario avere anche una quantomeno tendenziale omogeneità etno-linguistica, altrimenti diventa praticamente impossibile promuovere quei normali sentimenti di solidarietà, di appartenenza, di comunanza di destino che sono alla base di una nazione, e quindi degli ipotetici Stati Uniti d’Europa sarebbero una sorta di versione gigante e vagamente più civilizzata dell’Etiopia. Anche nella multietnica Svizzera i due terzi dei cittadini sono germanofoni, la cultura e la lingua (le lingue) induiste dominano l’India, russi etnici e cinesi Han sono rispettivamente i tre quarti e i quattro quinti della popolazione dei loro paesi. Urss, Yugoslavia, Libano, Cecoslovacchia, Sudan, Belgio dimostrano che viceversa non è facilissimo far convivere popoli diversi in un medesimo tessuto nazionale. Vi sono poi tutt’ora tensioni separatiste soffocate con la forza (Curdi di Iraq e Turchia, Cecenia, Ossezia, Inguscezia, Daghestan in Russia) o magari gestite con politiche assistenzialistiche (Québec, Catalogna, Euskadi, Scozia, Ulster, Alto Adige, ecc…). L’unico modo per far convivere popoli diversi è nella forma di Impero, ovvero nella forma di una nazione che domina -politicamente, militarmente ed economicamente- sulle altre, le quali comunque mantengono di solito ampi strati di autonomia ed autogestione. Il che potrebbe andare se uno avesse proprio lo spirito del gregario e non quello di Mazzini, Garibaldi e Pisacane che ci dicono che il Risorgimento non è concluso, ma è stato tradito e quindi deve essere portato avanti. C’è un piccolo problema però: in Europa una nazione egemone c’è, ed è la Germania. È normale, essendo l’economia più potente ed efficiente del continente, ma è anche ovvio che solo un folle potrebbe sperare di consegnarsi mani e piedi legati alla mercé di una nazione che fin dai tempi di Bismarck ha improntato il suo sistema produttivo, educativo, culturale ad un mercantilismo miope ed autolesionista. Quello che sta succedendo ora nell’eurozona basta a dimostrarlo. E quindi, chi parla di integrazione politica europea è, ancora, un ciarlatano e non va considerato degno di parlare. Vi è poi chi senza rendersene conto sposa una visione del mondo hegelo-marxista, ergo progressiva, e ci informa magari sconsolato che “indietro non si torna”. Peccato che questa affermazione cozza contro la banale constatazione che il modello di sviluppo neoliberista che ha nell’ordinamento giuridico europeo la sua istituzionalizzazione non è altro che quello imperante in occidente prima della crisi del 1929. I fatti sono indiscutibili: libera circolazione dei capitali; rigidità del cambio valutario (comunque più flessibile dell’euro grazie alle oscillazioni dell’oro sul mercato); deregolamentazione del rapporto di lavoro subordinato; indipendenza della banca centrale; presenza di grandi trust industriali, finanziari e mediatici totalmente privati. Veramente esiste qualcuno che non si rende conto che siamo effettivamente tornati indietro grazie al processo d’integrazione europea? Chi asserisce che non si possa tornare indietro è un ciarlatano e anch’egli non va considerato degno di parlare. Matteo Rovatti www.ilprimatonazionale.it/economia/euro-ed-europa-come-riconoscere-un-ciarlatano-18082/
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LA GRANDE SVENDITA La sottrazione di liquidità dalla sfera reale (famiglie e imprese) a quella finanziaria (banche e corporations) attraverso la deflazione, le tasse, gli interessi sul debito, il fiscal compact, il bail-in etc. NON ha lo scopo di trasferire denaro in sè. Le oligarchie finanziarie, infatti, possono crearne a volontà e possono ricorrere alla BCE che le rifornisce illimitatamente.Il vero scopo di tale trasferimento è costringere le famiglie e le imprese a SVENDERE BENI REALI, cosa che si rende necessaria a causa della penuria di liquidità. Sono i beni reali, privati e pubblici, le tecnologie, i marchi, il know-how italiano il vero obiettivo delle oligarchie finanziarie… Alberto Micalizzi
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Dismissioni e meno dividendi, ecco il piano industriale Eni (Il Primato Nazionale) Roma, 14 mar - Taglio al dividendo, riduzione degli investimenti, stop al riacquisto di azioni proprie, dismissioni. E il titolo crolla. Questa la sintesi della giornata di ieri, nella quale l’amministratore delegato Claudio Descalzi ha presentato il piano industriale Eni per il periodo 2015-2018. Il calo del prezzo del petrolio è una variabile indipendente che si fa sentire, pesantemente, sulle scelte compiute dalla dirigenza. Eni vuol crescere e lo farà spingendo sull’esplorazione e la coltivazione di giacimenti. “L’obiettivo di crescita delle produzione di idrocarburi è pari al 3.5% annuo”, spiega la società una nota. Con un occhio ai costi: quelli operativi sono previsti in calo del 7%, mentre gli investimenti subiranno un taglio del 17% rispetto al triennio precedente. A differenza di molti suoi concorrenti, Eni punta quindi dritto sull’attività “tipica”, che gli ha permesso nel tempo di accumulare un vantaggio competitivo di prim’ordine. Il costo medio che il cane a sei zampe sostiene per lo sviluppo dei campi di gas e petrolio è infatti sensibilmente inferiore rispetto ad altri operatori del settore. Secondo alcune stime, Eni spende circa 45 dollari lordi a barile estratto, garantendosi così un minimo margine anche in condizioni di prezzi estremamente bassi. Le fiacche quotazioni del Brent riverberano i loro effetti anche dal lato contabile. Nonostante la sensibile contrazione dell’utile per quest’anno il dividendo resterà in linea con le indicazioni fatte a suo tempo. Non sarà così a partire dal 2016, quando la cedola per azione passerà dagli 1.12 a 0.8 euro. I risparmi Eni sono nell’ordine degli 1.1 miliardi, che verranno trattenuti per poter assicurare la generazione di cassa necessaria per sostenere gli investimenti in autofinanziamento. Dall’altra parte, significa che ministero dell’Economia e Cassa depositi e prestiti, i due azionisti di riferimento, dovranno rinunciare ad almeno 350 milioni l’anno che non potranno più andare a puntellare le finanze pubbliche. “Creiamo una compagnia che non usa le riserve per pagare i dividendi. Io non guardo all’oggi ma al lungo termine”, ha detto Descalzi. Una decisione che, unitamente a quella di bloccare il riacquisto di azioni proprie, non è piaciuta al mercato: nella giornata di ieri, sulla piazza di Milano il titolo è stato prima sospeso per eccesso di ribasso, per poi chiudere la seduta a -4.59%. Si allontana anche la cessione delle quote detenute dal ministero, che proprio nel piano di buy back vedeva la possibilità di scendere nel capitale pur senza perdere la maggioranza (relativa) dei voti in assemblea. Scelta assai discutibile, ma che probabilmente segnerà una battuta d’arresto nelle velleità privatizzatrici da parte di Padoan. Terzo punto all’ordine del giorno è relativo alle dismissioni, che da qui al 2018 dovranno portare in cassa almeno otto miliardi di euro. Il 50% della cifra verrà dalla cessione di quote di partecipazione nelle più recenti scoperte, un altro 25% dall’uscita dal capitale di Snam e della portoghese Galp, il restante 25% “dalla cessione di asset maturi upstream e di attività non-core nel mid-downstream”, senza alcuna precisazione riguardo al destino di Saipem. Quel che emerge dal piano industriale Eni è una società più “leggera”, razionalizzata nelle sue dinamiche operative. La visione di Descalzi è nota da tempo: ridurre la presenza lungo la filiera produttiva, concentrandosi solo sulle attività a monte e cioè la ricerca e sfruttamento dei giacimenti di gas e petrolio che tante soddisfazioni hanno dato negli ultimi anni. La scelta è comprensibile, ma non si spiega alla luce di almeno due punti. Anzitutto la forza contrattuale: se Eni può offrire un servizio completo che va dalla ricerca alla trivellazione, dal trasporto allo stoccaggio, passando per la raffinazione, sarà senza dubbio avvantaggiata rispetto che limitandosi alle sole prime due attività. In secondo luogo, non si capisce quale sia la logica che lega tale strategia alla contemporanea cessione di quote delle nuove scoperte. Il timore è che tutto ciò sia il preludio ad un ridimensionamento, un profilo aziendale molto più basso dopo lo zenith raggiunto sotto la gestione Scaroni. Filippo Burla www.ilprimatonazionale.it/economia/dismissioni-e-meno-dividendi-ecco-il-piano-industriale-eni-19035/
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Gli sceicchi comprano l’80% di Dainese (Il Primato Nazionale) Vicenza, 5 nov - Sembra non conoscere fine lo shopping degli investitori esteri nel Belpaese, dopo Ducati ed Mv Agusta un’altra industria italiana delle due ruote passa in mano straniera. E’ notizia di oggi infatti che il fondo bahariano Investcorp ha perfezionato per 130 milioni di Euro l’acquisizione dell’80% di Dainese S.p.A.. Dainese S.p.A., assieme alla controllata AGV, è leader nella produzione di abbigliamento tecnico per chi pratica sport. Il germe dell’azienda nacque nel 1968 quando Lino Dainese durante un viaggio con la Vespa vide alcuni centauri inglesi indossare le prime tute in pelle. Provenendo dal famigerato distretto pellettiero vicentino il passo dall’idea all’azione è breve e nel 1972 dallo stabilimento di Molvena (VI) esce il primo prodotto: un paio di pantaloni da motocross. Da allora ai giorni nostri è una storia italiana ricca di innovazione e primati: nel 1978 introduce il paraschiena per motociclisti che verrà utilizzato dal campione del mondo Barry Sheene; nel 1980 le prime ginocchiere rinforzate (c.d. saponette); nel 1986 la gobba aerodinamica per le tute da pista; nel 1995 progetta e realizza i primi guanti in kevlar e carbonio; nel 2007 produce l’airbag D-Air, dispositivo che alla prima uscita pubblica salvò la vita a due piloti del mondiale 125 durante il GP di Valencia. Il fondatore sostiene che in questo momento di sviluppo era estremamente importante per l’impresa trovare un partner giusto che ne supportasse lo sviluppo internazionale. A noi, visti i precedenti, rimane la legittima preoccupazione circa il futuro dello stabilimento e delle maestranze vicentine alle quali il patron Lino deve molto del suo successo. Luca Repentaglia www.ilprimatonazionale.it/2014/11/05/gli-sceicchi-comprano-l80-di-dainese/
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Imprenditori negli Usa per cercare di svendere altri pezzi d’Italia (Il Primato Nazionale) New York, 10 feb - Questo pomeriggio presso la sede di Bloomberg a Manhattan, si terrà il vertice ‘Italy Meets the United States of America‘ organizzato da Aspen Institute Italia e The Council for The United States and Italy. Il tema di questo vertice, al quale parteciperà anche il Ministro degli Affari Esteri italiano Paolo Gentiloni sarà “Italia: noi siamo aperti al business”. Al summit saranno presenti inoltre grandi aziende quali Enel, Fiat Chrysler (FCA), Poste Italiane, Terna, Wind. Sergio Marchionne - Ad di Fiat Chrysler - che presiederà’ gli incontri del pomeriggio del Council darà’ la misura del progresso ricordando l’annuncio recente di nuove assunzioni di 1.500 persone agli impianti di Melfi, dovuto al ritorno di un approccio globale allo sviluppo industriale e aziendale. Ma ci saranno anche le testimonianze di Alessandro Castellano di Sace, un altro esempio di cambiamento visto che il governo ha deciso di rendere Sace autonoma con un percorso per un collocamento in borsa che agevolerà’ l’erogazione di credito all’esportazione. Per l’imprenditoria ci saranno Riccardo Illy di Illy Group, Sergio Dompe’ Presidente di Dompe’ farmaceutici, Paolo Marcucci di Kedrion, Massimo Scaccabarozzi presidente di Farmindustria. Ci saranno anche banchieri italiani come Monica Mandelli di Goldman Sachs o Federico Mennella di Lincoln International. Un vertice che ha attirato le attenzioni anche di America 24, costola redazionale de Il Sole 24 Ore con sede proprio a New York e che vanta tra le altre cose una radio che racconta gli Stati Uniti giorno dopo giorno, e che entusiasticamente vede l’opportunità di nuovi investimenti americani in terra italiana. “L’atteggiamento nei confronti dell’Italia e’ cambiato rispetto anche ad alcuni mesi fa” e la lunga sequela di ragioni che indurrebbero lo zio Sam ad attraversare l’Atlantico fanno da corredo all’analisi giornalistica fornita dai redattori de Il Sole 24 Ore. Il nuovo mercato del lavoro, che necessita di flessibilità e di costi sempre più bassi rendono in questo momento l’Italia particolarmente attraente. Indicative in tal senso le nuove misure attuate attraverso il Jobs Act dal governo Renzi, ma anche il quasi immobilismo dei salari italiani che crescono in misura assai più ridotta che negli altri paesi dell’Ue. Queste le ragioni per cui il Belpaese dovrebbe attrarre nuovi investimenti a stelle e strisce rispetto a Germania, Francia e Inghilterra che offrono costi complessivi molto più alti. Ma anche il decreto Destinazione Italia del 2013 varato dal governo Monti e che consente agli investitori stranieri di avere particolari regole fiscali e incentivi, nonché il recente decreto sul Fiscal Compact che estende l’esenzione fiscale sugli interessi pagati da aziende italiane ai fondi di investimento, sono alcune delle altre ragioni che, secondo i giornalisti del quotidiano di Confindustria, rendono l’Italia molto più appetibile rispetto al passato. L’impressione, leggendo l’articolo di America 24, è che si stia tentando di vendere la pelle dell’orso prima ancora di averlo cacciato. In realtà ciò che si andrà a proporre in terra statunitense è il grosso delle riforme strutturali promesse dal governo Renzi e che in ragione della direzione iper liberista che esse portano in nuce, dovrebbero convincere gli investitori americani a puntare le loro mire speculative verso l’Italia. Giuseppe Maneggio www.ilprimatonazionale.it/economia/imprenditori-negli-usa-per-svendere-altri-pezzi-d-italia-16629/
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Allarme povertà: un italiano su tre è a rischio (IL Primato Nazionale) Roma, 20 feb - La crisi morde e si fa sentire soprattutto nei paesi più deboli del vecchio continente: Irlanda, Portogallo, Spagna, Italian, Romania, Grecia e Cipro. Secondo l’ultimo rapporto di Caritas Europa sull’impatto della crisi, in queste nazioni il 31% della popolazione è a rischio povertà o esclusione sociale. Se l’esclusione è un fenomeno di natura sociologica solo in parte inquadrabile, è invece più facile definire la condizione di povertà che, statisticamente, indica l’impossibilità per una persona -o una famiglia- di acquistare un determinato paniere di beni considerati essenziali. Le soglie variano a seconda dei contesti, ma in genere in Europa il rischio di finire al di sotto di esse si attesta attorno al 25%. Più elevato, come detto, in quei paesi che hanno più subito gli effetti della crisi economica e le politiche di austerità imposte da Bruxelles. La classifica è guidata dalla Romania, che registra oltre il 40% della popolazione già al di sotto o vicina alle soglie-limite. L’Italia è invece più in basso, ma in linea alla media generale con “solo” il 28% di cittadini a rischio povertà. Siamo ben oltre la media Ue. I numeri forniti dalla Caritas non sono molto distanti da quelli elaborati dall’Istat. Secondo i tecnici dell’istituto di statistica almeno dieci milioni di italiani -il16.6% della popolazione- sono in condizione di povertà relativa, mentre il 23.4% delle famiglie vive una qualche forma di disagio economico. I valori sono più bassi rispetto a quelli dell’organismo pastorale perché le percentuali fornite da quest’ultima si A complicare il quadro sono, in ultimo, le prospettive sul futuro. In Italia infatti, sempre secondo l’Istat, non accenna a diminuire il numero dei cosiddetti “neet”, giovani che non studiano né lavorano e nemmeno cercano un’occupazione. Il 26% di chi ha meno di trent’anni si trova in questa condizione, facendo così segnare il triplo della Germania ed il doppio della Francia. Con un’ulteriore beffa: dal momento che la disoccupazione è misurata sulla base di chi è alla ricerca di un impiego, lo scivolare nella categoria “neet” fa sicuramente migliorare il primo indice, ma descrivendo in realtà una situazione ben peggiore. Filippo Burla www.ilprimatonazionale.it/economia/poverta-italia-popolazione-a-rischio-17398/
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SvendItalia: al via la privatizzazione di Enav Roma, 12 lug - E’ partita in questi giorni, per concludersi verso fine mese, l’offerta pubblica di vendita con la quale il ministero dell’Economia collocherà in borsa Enav, la società che gestisce il traffico aereo in Italia. Lo sbarco in borsa è previsto il 26 luglio quando si conoscerà anche il prezzo finale delle azioni, ad un valore compreso fra i 2.9 e i 3.5 euro. L’offerta iniziale è del 42.5% di Enav, ma la percentuale ceduta dovrebbe salire oltre, fino anche al 46.5%, lasciando così allo Stato la maggioranza - il 53.5% circa - del capitale, coerentemente con il decreto (datato 2014) che prevedeva il mantenimento di almeno il 51% in mano pubblica. La quotazione si inserisce all’interno del piano di privatizzazioni varato dai governi - dal Monti in avanti - come strategia per tentare di aggredire il debito pubblico, che si stima nel 2016 raggiungerà il 132.9% del Pil, sopra quota 2200 miliardi. La cessione di Enav segue quelle di Fincantieri e Poste Italiane e precede il “pezzo forte” di Trenitalia, la cui cessione era prevista inizialmente per l’inizio di quest’anno ma che slitterà al 2017. L’incasso che l’esecutivo si attende oscilla fra 730 e 880 milioni di euro: non più dello 0.004% del debito pubblico, abbastanza per far sorgere più di qualche dubbio sull’effettiva convenienza dell’operazione. Tanto più che la società dei controllori di volo presenta da anni bilanci in attivo, con l’utile che nel 2015 ha superato i 66 milioni di euro, in crescita dai 40 del 2014 e dai 50 dell’anno precedente. Se davvero Enav verrà valutata dal mercato attorno ad 1.75 miliardi, lo Stato rinuncia ad un rendimento che sfiora il 4% per “pagare” un qualcosa - il debito pubblico - che costa (stando alle ultime emissioni) meno del 3%: come già osservato per la cessione della seconda tranche di Poste, quell’1% (e più) di differenza è ciò che il governo accetta come perdita netta pur di avere un incasso immediato. Filippo Burla, Il Primato Nazionale www.ilprimatonazionale.it/economia/svenditalia-al-via-la-privatizzazione-enav-47805/
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Giù il cappello: Borsalino travolta dal capitalismo affaristico (Il Primato Nazionale) Alessandria, 5 mar - Borsalino, storico produttore alessandrino di cappelli che sta alla moda quasi come la Ferrari sta alle auto, è prossima al fallimento. Dopo quasi 160 anni di storia, con 130 dipendenti di altissima qualificazione, il Cda guidato da Marco Moccia ha deciso di chiedere al tribunale di Alessandria il concordato preventivo “che consenta la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione dei crediti”, ma che potrebbe anche portare a uno “scenario alternativo di natura liquidatoria”, appunto il fallimento. Il vero dramma consiste nel fatto che non si tratta di una crisi industriale - il prodotto non ha mai avuto tanta richiesta in innumerevoli mercati di tutto il mondo, incluso il settore dei copricapo religiosi - ma del gigantesco crack finanziario, che con tre miliardi di euro si colloca al secondo posto in Italia dopo il crack Parmalat, del socio di maggioranza: l’astigiano Marco Marenco. Marenco, 59 anni, un personaggio vagamente misterioso, tanto riservato che non compare in alcuna fotografia pubblica, ma ben noto ai tribunali di Asti e Alessandria che, tra giugno e luglio dello scorso anno, spiccarono contro di lui mandati di cattura finora andati a vuoto: da oltre sei mesi, infatti, il finanziere astigiano è di fatto latitante, probabilmente in Svizzera, dove è noto avere legami molto forti e ramificati, ma il rischio è che si trovi in un altro e assai più lontano e complesso dei tantissimi paesi del mondo dove il suo impero industriale ha sviluppato progetti e rapporti, dall’Asia centrale alla Russia, dall’Ucraina alla Germania e ad alcuni paesi africani. La gestione dell’impero di Marenco era affidata a una società di famiglia, la Fisi, che fino qualche anno fa risultava essere a sua volta controllata da almeno un’altra società a monte, forse una semplice Snc ancora più “familiare” e che al tempo dei provvedimenti giudiziari era comunque controllata dalla quasi omonima Fisi GmbH (analoga come tipo a una Srl italiana) con sede in Germania. Il resto, un intrico tuttora solo parzialmente svelato fatto di innumerevoli scatole cinesi distribuite in Italia e in mezzo mondo. Per farsene almeno un’idea superficiale, può essere utile leggere la visura storica di una delle infinite partecipate, la Italbrevetti Srl, che a suo tempo ha sviluppato moltissimi impianti idroelettrici in Toscana settentrionale e in Emilia. L’inchiesta era partita dalla Dogana di Alessandria, che ha competenza anche su Asti, a causa di un’evasione da 4 milioni di accise sul gas della Metanprogetti, fino a scoprire 300 milioni di evasione, mentre cominciavano ad arrivare richieste di concordati preventivi da diverse società del gruppo con passivi impressionanti, fino appunto a delineare il maxi crack e a portare al fallimento personale di Marenco. Come è possibile che un gruppo leader nel trading di petrolio e gas, che negli anni ha metanizzato mezzo Piemonte, proprietario di innumerevoli dighe idroelettriche sulle Alpi e gli Appennini, produttore di energia da diverse fonti rinnovabili, leader in settori ad alta intensità industriale come quello delle grondaie, delle condotte, dell’upstream di petrolio e gas, e appunto di una florida azienda come Borsalino, abbia accumulato così tanto debito da vedersi sequestrare le quote di proprietà in almeno 11 partecipate, tra cui appunto il 50,45% della Borsalino di proprietà della Fisi, e il 17,47% di quota della Finind, altra società “marenchiana” a sua volta da tempo commissariata per bancarotta? Marenco, secondo l’accusa, avrebbe spolpato le sue aziende portando il denaro all’estero, attraverso società con base in Stati a fiscalità privilegiata, configurando il reato per cui è ricercato in base all’ordinanza di custodia cautelare in carcere: bancarotta fraudolenta, in concorso con 18 complici, tra i quali alcuni commercialisti astigiani, oltre che una presunta evasione di accise ed Iva per oltre 300 milioni di euro. In altre parole, in base alle accuse, almeno tre miliardi di Euro sarebbero stato sottratti ad aziende italiane per lo più in ottima salute industriale, e portati all’estero. Non è dato sapere, poi, se abbiano avuto un ruolo anche speculazioni legate al trading finanziario, in se’ ovviamente legittimo, di cui nell’ambiente si parla come di una assidua attività di Marenco. Ad aggravare e rendere potenzialmente ancora più odiosa la situazione, qualora il quadro risultasse quello configurato dalle indagini finora condotte, è un elemento ulteriore di cui finora non si è trovata traccia nella stampa specializzata: la maggior parte degli impianti di produzione energetica da fonti rinnovabili sono stati a suo tempo cofinanziati con soldi pubblici, tra cui impianti idroelettrici toscani della già menzionata Italbrevetti, nella fattispecie con fondi europei erogati dalla Regione Toscana (per esempio questo, abbastanza recente, in provincia di Massa Carrara, per oltre due milioni di euro). Alla radice del problema appare quindi risiedere una gestione familiare strettamente privata di un impero industriale che, come si è visto, non ha disdegnato una componente di socializzazione sul lato dei finanziamenti (pubblici, appunto), ma ha potuto operare senza controllo sul lato della gestione, mettendo a serio rischio la stessa sopravvivenza delle aziende e la relativa occupazione, attraverso - sempre secondo le accuse - la sottrazione personale di una enorme quantità di risorse finanziarie. Uno schema che, purtroppo, non è affatto nuovo e che prefigura un vizio di fondo del capitalismo italiano. Nel frattempo, alla Borsalino i nuovi amministratori fanno i salti mortali per pagare i dipendenti e fornitori strategici, molti dei quali comunque in grave sofferenza per l’esposizione creditizia; la richiesta di concordato preventivo consentirà almeno di risolvere il rebus della proprietà, mentre già circolano voi di possibili cordate pronte a rilevare il marchio, che niente vieta possano attingere a capitali stranieri e quindi determinarne l’abbandono dell’Italia almeno sul piano proprietario e decisionale. Un passaggio di mano che ricorda quello dei primi anni ‘90, quando il cappellificio passò da una scellerata proprietà politico-affaristica - l’architetto socialista Silvano Larini, travolto da Tangentopoli - agli imprenditori astigiani Gallo-Monticone. Roberto Gallo, in particolare, pare aver ben gestito la Borsalino per una quindicina d’anni, ma con un solo cruciale difetto: è parente di Marco Marenco. Francesco Meneguzzo www.ilprimatonazionale.it/economia/produttore-di-cappelli-borsalino-fallimento-18375/
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Anche Pirelli diventerà cinese (Il Primato Nazionale) Milano, 20 mar - Non si placano le indiscrezioni attorno a Pirelli, la società nota nel mondo per la produzione di pneumatici per auto e motoveicoli, riguardo ad una possibile scalata ostile dall’estremo oriente. I negoziati sarebbero ormai in fase avanzata. Pirelli è oggi controllata da un patto di sindacato al quale partecipano, fra i principali azionisti, la Camfin di Tronchetti Provera e Malacalza, la russa Rosneft e le banche Unicredit e Intesa San Paolo. Proprio le difficoltà di Rosneft, alle prese con il calo del prezzo del petrolio e la svalutazione del rublo, sarebbero alla base dell’ipotesi di sua sostituzione con i cinesi di China National Chemical Corporation. I cinesi potrebbero lanciare un’offerta pubblica di acquisto sulle azioni della Bicocca, “finalizzata a garantire stabilità, autonomia e continuità nel percorso di crescita nel tempo del gruppo Pirelli che manterrebbe gli headquarter in Italia”, hanno spiegato da Camfin su richiesta della Consob. L’operazione dovrebbe strutturarsi tramite “il trasferimento dell’intera partecipazione detenuta da Camfin a un prezzo di 15 euro per azione a una società italiana di nuova costituzione controllata dal partner industriale internazionale“, vale a dire Chem China. Successivamente, Camfin reinvestirebbe quanto incassato in questa nuova realtà, al fine di mantenere comunque la presenza in Pirelli. Sulla scorta di quanto trapela, negli ultimi giorni in titolo ha registrato in Borsa rialzi importanti e, al momento, segna quasi +5%. Filippo Burla www.ilprimatonazionale.it/economia/anche-pirelli-diventera-cinese-19411/
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Ammesso e non concesso che il piano di privatizzazioni venga concluso in tempi utili, nelle ottimistiche stime di governo la cessione di quote Eni, Snam, Terna e la quotazione di Fincantieri e Sace e delle altre realtà sotto controllo statale, potrà al massimo risultare in un incasso per 12 miliardi (che diventerebbero giusto qualche miliardo in più con le tanto ventilate cessioni immobiliari che, in qualsiasi modo vengano tentate, sono ferme al palo da anni). In estrema sintesi, al più la riduzione del debito si concretizzerebbe in un misero 0,75%. Questo a fronte delle perdite di centinaia di milioni in termini di mancati introiti da dividendi futuri... ilPrimatoNazionale .it
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@NEROITALICO 7 лет назад
ATTACCO ALLE BANCHE: SI MUOVE MOODY’S Poche ore fa Moody’s ha modificato la prospettiva del settore bancario italiano (“outlook”) portandolo da NEUTRO a NEGATIVO. Si tratta della mossa che tipicamente precede un taglio generalizzato dei rating delle banche con conseguente caduta dei prezzi. Le motivazioni ufficiali sono due. La prima è la percentuale di crediti in sofferenza (“impaired loans”), che secondo Moody’s ha un valore di 16,4%, pari al triplo della media europea. Il grafico utilizzato (vedi figura) colloca all’estremo destro MPS, Popolare di Vicenza e Carige. In alto a sinistra si legge però “End-1H16”, che vuol dire “primo semestre 2016”. Si tratta infatti di dati arci-noti, pubblicati lo scorso Giugno dalla EBA (autorità bancaria europea), ma curiosamente saltati all’attenzione di Moody’s solo oggi…. La seconda motivazione riflette gli “EFFETTI NEGATIVI SULLA FIDUCIA CONSEGUENTI IL RIFIUTODA PARTE DEL PAESE DELLE RIFORME COSTITUZIONALI” (!) Siccome un giorno tuttociò potrebbe interessare un Magistrato, questa è l’esatta frase inglese da metradotta: “adverse effect upon confidence following the country’s rejection of constitutional reforms”. Poiaggiungono che “il fallimento nel ristrutturare una banca debole come MPS condurrebbe ad un ulteriore scadimento della fiducia“, che ha il sapore di un assist diretto sui piedi di Gentiloni… Nel mio articolo di Lunedi scorso “PRONTO IL MES PER COMMISSARIARCI: ALZARE GLI SCUDI”parlavo di “attacco speculativo contro il settore bancario italiano attraverso ingenti vendite allo scoperto“ e spiegavo che sarebbe partito dall’azione congiunta di media e agenzie di rating, dicendo “…i mediamain-stream additerebbero l’intervento statale come iniquo … spalleggiati dalle agenzie di rating che presto faranno sentire la propria voce”. La bruttanotizia è che non ho utilizzato alcuna sfera di cristallo… di Alberto Micalizzi #bancheitaliane #banca #Moody's #rating #Italia #governo #MES albertomicalizzi1.wordpress.com/2016/12/14/attacco-alle-banche-si-muove-moodys/
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Ttip nono round: l’Europa rischia di finire al tappeto (Il Primato Nazionale) Bruxelles, 20 apr - Oggi a Bruxelles verrà disputato il nono round delle trattative sul trattato di libero scambio tra Unione europea e Stati Uniti, il Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership). Si parlerà di indicazioni geografiche tipiche di sviluppo sostenibile, senza tralasciare l’obiettivo delle indicazioni geografiche tipiche. Certo sono solo pochi argomenti di discussione, ma la materia è assai vasta. Nonostante lo scarso spazio concesso dai media, questo è un evento di eccezionale importanza. Come riporta il sito della Commissione Europea: “Questo trattato ha l’obiettivo di rimuovere le barriere commerciali in una vasta gamma di settori economici per facilitare l’acquisto e la vendita di beni e servizi tra Europa e Stati Uniti”. Ogni mercato per definizione è fatto di regole. Se gli affari spettano agli attori economici, le leggi sono prerogativa dei soggetti politici. Ed è proprio qui che casca l’asino. L’Europa rischia di essere un soggetto debole rispetto agli Usa per due motivi. In primis, il potere decisionale è in mano a persone che ignorano bellamente ciò che approvano. In secundis, manca un modello europeo di sviluppo. Andiamo con ordine. Gli europarlamentari voteranno senza conoscere l’oggetto di questo accordo. Il principio: “Conoscere per deliberare” va a farsi benedire. Non si tratta, però, di politici distratti. Il problema è un altro. La trasparenza pubblicizzata dalla Commissione Europea vale solo per i lobbisti che possono accedere liberamente alle sudate carte. Per ogni deputato europeo, infatti, accedere ai documenti del Ttip è una mission impossibile. Il sito spagnolo eldiario.es ci dimostra quanto detto. Circa un mese fa il parlamentare spagnolo Ernest Urtacan ha cercato di vederci chiaro. L’esperienza fu per lui, però, infausta. Urtacan dichiara che prima di entrare nella reading room (un loculo di sei metri quadrati sorvegliato giorno e notte dai funzionari della Malstrom), si è dovuto sottoporre a una procedura a dir poco singolare: “Mi hanno tolto la penna, il bloc notes per gli appunti e il cellulare. Poi ho dovuto firmare un documento di 14 pagine come impegno di riservatezza. Dopo di che mi sono state concesse due ore al massimo per consultare i fascicoli, e per tutto il tempo sono stato controllato a vista da un funzionario”. Il commento dell’europarlamentare spagnolo è a dir poco negativo: “I documenti sono redatti solo in inglese, nonostante l’Ue conta 24 lingue ufficiali su 28 Paesi. Vi è altresì un problema tecnico”. Ma l’iberico pone un altro problema di carattere squisitamente tecnico: “Non sono un esperto di telecomunicazioni, e per capire i documenti secretati su questa materia mi sarebbe servito l’aiuto di un tecnico, e più tempo. Ma non ho potuto avere né l’uno, né l’altro”. Queste dichiarazioni sono state riportate da Tino Oldani su Italia Oggi. L’altro punto debole dell’Unione Europea è la mancanza di un modello di sviluppo alternativo a quello statunitense. Gli States hanno scelto una strada che qualcuno chiama: “Ceo-Capitalismo”. Il potere è distribuito su una piramide di tre livelli: 1% i supermanager, il 10% i loro servi scaltri (giornalisti, politici, tecnici), gli altri raccolgono le briciole sotto al tavolo. Attenzione, però, non si tratta di politiche di destra o di sinistra. Repubblicani e democratici sono accomunati dalla voglia di impoverire la classe media e di placare quella povera. Il vecchio continente, al massimo si accontenta di fare qualche multa a Google o a Microsoft. Iniziative estemporanee senza una strategia di lungo respiro. Come facciamo, dunque, ad avviare una trattativa senza sapere quel che vogliamo? Ma non è tutto. Non dimentichiamo, infatti, che giochiamo fuori casa. Le lobbies sono nel Dna della politica a Stelle e Strisce. La lobby agisce tramite un gruppo organizzato di persone che cerca di influenzare dall’esterno le istituzioni per favorire particolari interessi. Questi signori, in pratica, decidono chi deve sedere alla Casa Bianca. Figuriamoci quanto ci mettono a servirsi di un trattato transnazionale per tutelare gli interessi dei loro padroni. Ma gli europei riuscirebbero a fare fronte comune difendendo le loro peculiarità culturali economiche e politiche? Ma certo che no. Ciò che deve farci paura, parafrasando Giorgio Gaber, non è l’americano in sé ma l’americano in noi. Forse in questi giorni è inopportuno esprimersi in tal modo. Settanta anni or sono gli Yankees ci regalavano libertà e democrazia. E allora perché lamentarsi? Speriamo solo che siano buoni con noi come già hanno fatto in passato. Salvatore Recupero www.ilprimatonazionale.it/economia/ttip-nono-round-europa-rischia-di-finire-tappeto-21639/
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Dopo Pirelli, Pininfarina: ora è l’India a puntare i pezzi pregiati (Il Primato Nazionale) Roma, 26 mar - Neanche il tempo di metabolizzare l’acquisto in salsa cinese di Pirelli che, subito, si apre un nuovo fronte industriale. Lo schema è ormai il classico e consolidato dell’acquisto dall’estero. L’indiziato, a questo giro, è un marchio che ha fatto la storia e il cui nome risponde a quello di Pininfarina. Secondo indiscrezioni raccolte dall’agenzia Bloomberg, “da settimane” sarebbero in corso trattative fra la casa torinese e il colosso indiano Mahindra, parlando di “chiusura dell’accordo vicina”. La notizia ha trovato il forte apprezzamento da parte del mercato, con il titolo che ieri è stato sospeso più volte per poi chiudere la seduta in rialzo di oltre il 26%. Dalla società, nota principalmente per il design che spazia dalla Ferrari Testarossa alla torcia olimpica di Torino 2006, dagli eurostar alla Macerati Quattroporte, per ora non arriva alcun commento. Mahindra è, peraltro, già attuale cliente della storica casa fondata da Battista “Pinin” Farina nel 1930. Da parte sua, Pininfarina viene da alcuni anni di difficoltà, che fanno seguito alla crisi del settore automobilistico: la parte industriale di produzione carrozzerie è stata chiusa nel 2010, mentre il prezzo pagato fino ad oggi dai lavoratori -fra Italia ed estero- è attorno alle mille unità. Una preda ideale per le mire di chi volesse continuare con gli acquisti a saldo nel nostro paese. L’eventualità della cessione all’estero trova contraria la Fiom: “Nonostante le difficoltà, anche di carattere finanziario, di questi anni, la Pininfarina resta non solo un simbolo del made in Italy, ma un patrimonio di conoscenze e know how del nostro paese. Se mai le notizie di queste ore fossero confermate, si tratterebbe dell’ennesimo caso di un’azienda e un marchio prestigiosi che rischiano di finire in mani straniere, nel vuoto della politica e delle istituzioni”, ha dichiarato il segretario provinciale Federico Bellono. Filippo Burla www.ilprimatonazionale.it/economia/trattative-acquisto-pininfarina-gruppo-indiano-mandira-19816/
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Il declino italiano? Tutto è cominciato negli anni ’90 (Il Primato Nazionale) La crisi economica italiana nasce con i governi tecnici dei primi anni ’90 subito dopo Tangentopoli per proseguire con i governi di sinistra guidati da Prodi e D’Alema. Da allora nulla sarà più come prima e il lento declino continua ad accompagnarci ancora oggi. Roma, 18 mar - E’ opinione diffusa tra gli accoliti della sinistra italiana che i mali economici del Belpaese siano stati in larga misura acuiti e creati dai governi presieduti da Silvio Berlusconi. Mentre un’altra grossa fetta della popolazione è convinta che si debba viceversa far risalire le cause del declino alla pazza spesa pubblica della stagione dei governi del Pentapartito, quindi grosso modo in quel periodo storico che va dal 1980 alla nascita della cosiddetta e fantomatica Seconda Repubblica (1993). Quest’ultima tesi è quella che va per la maggiore negli ambienti dei liberali moderati che indistintamente possono essere collocati all’interno del centro-destra o del centro-sinistra. In questa piccola analisi ci occuperemo invece di quel periodo che va dalla fine degli anni ’80 fino alla fine dei ’90. Scopriremo come e perché le cause di tutti i nostri mali economici siano da attribuire alle politiche intraprese durante quegli anni. Anni che hanno visto il crollo del nostro Pil e del valore della lira contro il marco tedesco e dollaro Usa e il drammatico avvento delle privatizzazioni. L’Italia perderà terreno nei confronti della Francia (-21%), della Germania (-29,3%), della Gran Bretagna (-11,1%), del Giappone (-27,7%) e degli Stati Uniti (-25,8%). Per ricchezza prodotta il nostro paese raggiungerà il suo punto più elevato nel 1986 entrando a pieno titolo al quinto posto delle nazioni del G6 e scavalcando anche la Gran Bretagna per 47 miliardi delle vecchie Lire. L’Italia raggiunse un altro storico traguardo nel 1991 allorquando in piena Tangentopoli divenne la quinta potenza industriale del pianeta e sfiorando il quarto posto nella classifica delle nazioni più ricche. Fu l’ultimo capitolo di una stagione che vedeva la politica ancora con le redini per poter intervenire nei processi economici del paese. L’epitaffio più prestigioso prima che il pool di Mani Pulite facesse piazza pulita della classe dirigente e imprenditoriale con il chiaro intento di aprire la strada a potentati economici e finanziari di marca anglo sassone. Si chiudeva la stagione dell’intervento pubblico e di tutti quei meccanismi partecipativi che permisero alla nostra economia di vivere i fasti del boom economico degli anni ’70 e del consolidamento degli ’80. Gran merito di questo successo va attribuito alle strutture, alle leggi e a quegli istituti (Iri su tutti) creati durante il fascismo che in un modo e nell’altro sopravvissero ancora nei decenni successivi al Ventennio. Nel 1987 l’Italia entra nello Sme (Sistema monetario europeo) e il Pil passa dai 617 miliardi di dollari dell’anno precedente ai 1201 miliardi del 1991 (+94,6% contro il 64% della Francia, il 78,6% della Germania, l’87% della Gran Bretagna e il 34,5% degli Usa). Il saldo della bilancia commerciale è in attivo di 7 miliardi mentre la lira si rivaluta del +15,2% contro il dollaro e si svaluta del -8,6% contro il marco tedesco. Tutto questo, come detto, ha un suo apice e un suo termine coincidente con la nascita della Seconda Repubblica. La fredda legge dei numeri ci dice difatti che dal 31 dicembre del 1991 al 31 dicembre del 1995, solo quattro anni, la lira si svaluterà del -29,8% contro il marco tedesco e del -32,2% contro il dollaro Usa. La difesa ad oltranza e insostenibile del cambio con la moneta teutonica e l’attacco finanziario speculativo condotto da George Soros costarono all’Italia la folle cifra di 91.000 miliardi di lire. In questi quattro anni il Pil crescerà soltanto del 5,4% e sarà il fanalino di coda della crescita all’interno del G6. In questi anni di governi tecnici la crescita italiana perderà terreno nei confronti della Francia (-21%,), della Germania (-29,3%), della Gran Bretagna (-11,1%), del Giappone (-27,7%) e degli Usa (-25,8%). Sono questi gli anni più tragici per l’economia italiana. Da allora la crescita, quando c’è stata, si è contabilizzata sulla base di cifre percentuali da prefisso telefonico. L’Italia perse in pochi mesi la classe politica del trentennio precedente che venne rimpiazzata nei posti strategici soprattutto da gente proveniente da noti istituzioni bancarie che seguirono - facendo addirittura meglio - alla lettera l’esempio thatcheriano. Non è un caso che proprio la Gran Bretagna della Lady di ferro perse nel periodo che va dal 1981 al 1986 il 29% di crescita nei confronti dell’Italia, il 4.9% nei confronti della Francia e il 5% nei confronti della Germania. La fredda legge dei numeri che una volta per tutte smentisce chi ancora oggi glorifica la svolta liberista intrapresa dalla Thatcher. Svolta liberista che a partire dai governi tecnici e di sinistra colpì pesantemente l’Italia. Tutte le riforme strutturali avviate in quegli anni portarono il nostro paese a perdere posizioni che mai più avrebbe riguadagnato. A seguire tutte le privatizzazioni con relativo valore al momento della cessione in miliardi di lire dell’epoca: 1993 Italgel, Cirio-Bertolli-De Rica, Siv 2.753 1994 Comit, Imi, Ina, Sme, Nuovo Pignone, Acciai Speciali Terni 12.704 1995 Eni, Italtel, Ilva Laminati piani, Enichem, Augusta 13.462 1996 Dalmine Italimpianti, Nuova Tirrenia, Mac, Monte Fibre 18.000 1997 Telecom Italia, Banca di Roma, Seat, Aeroporti di Roma 40.000 1998 Bnl + altre tranche 25.000 1999 Enel, Autostrade, Medio Credito Centrale 47.100 2000 Dismissione Iri 19.000 Con la scusa di reperire capitali in vista della futura introduzione della moneta unica il governo presieduto da Romano Prodi (17 maggio 1996 - 20 ottobre 1998) iniziò a spingere sull’acceleratore delle privatizzazioni e sulle cartolarizzazioni, ovvero la sistematica svendita del patrimonio di tutti gli italiani. Il governo Prodi non riuscì a completare la sua missione perchè ad ottobre del 1998 cadde, ma con una mossa a sorpresa, evitando di fatto il ricorso alle urne, si diede l’incarico di creare una nuova maggioranza all’ex comunista Massimo D’Alema, che che proseguì la barbarie fin quando gli fu permesso (aprile del 2000) e conseguentemente proseguito dal governo “tecnico” Amato, quest’ultimo finito con la chiamata alle urne nel maggio del 2001. Questa fu la stagione legata alla più colossale svendita del patrimonio pubblico italiano. Furono incassati 178.019 miliardi di lire pari a 91 miliardi di euro. “Meglio” della liberale Inghilterra della Thatcher. Milioni di posti di lavoro cancellati negli anni a venire che fecero perdere quella crescita che viceversa aveva contraddistinto i decenni precedenti. Le privatizzazioni non sono mai cessate. Dopo il 2000 proseguirono e continuano ancor oggi a piè sospinto. Cambia solo la ragione per la quale i governi ci dicono che dobbiamo procedere obbligatoriamente per questa strada: l’abbattimento del debito pubblico. Vale a dire come far passare il fatidico cammello attraverso la cruna dell’ago. Ma le privatizzazioni non solo non sono servite a nessuna delle cause fin qui addotte, ma come detto prima, cancellano posti di lavoro abbassando l’occupazione reale nell’arco di qualche anno. Nessuna delle ex aziende pubbliche ristrutturate dai privati ha difatti provveduto ad assumere più dipendenti della vecchia gestione. Centinaia di migliaia di posti di lavoro persi in favore del precariato e di tutti quei contratti a termine che hanno tolto certezze e diritti. Un altro elemento che oggi favorisce questa continua barbarie ai danni del lavoro ci è data dall’immigrazione favorita e voluta dalla Ue, accompagnata dal solito finto e perfido buonismo, che ha la funzione di servire sempre alla stessa finalità: alzare la disoccupazione marginale per far accettare ai lavoratori salari e diritti calanti. L’Italia ha avuto nel suo passato degli ottimi spunti che ci hanno posto ai vertici delle nazioni più competitive e questo malgrado le cassandre che enfatizzavano gli aspetti legati all’elevata corruzione, alla criminalità organizzata e all’ignavia tipica dei mediterranei. Un paese che era vivo e presente, con il giusto slancio per affrontare qualsiasi sfida posta a livello internazionale. E questo era stato ampiamente compreso dai nostri diretti competitor, Germania, Gran Bretagna e Francia in testa che hanno fatto di tutto per smantellarci pezzo dopo pezzo. Nel 1997 il Pil italiano ha ancora una brutta caduta e passa dai 1266 miliardi dell’anno precedente ai 1199 miliardi. Recupera qualcosa nel ’98 (1225 miliardi) per poi scendere ancora a 1208 miliardi di dollari nel 1999. L’intero periodo segna una decrescita complessiva del -4,6%. L’11 dicembre del 2001 dopo 15 anni di negoziati, la Cina entrava a far parte del Wto (World Trade Organization), l’organizzazione mondiale del commercio. Da allora tutto è cambiato. Le economie anglosassoni, grazie alla deregolamentazione dei mercati voluta da Bill Clinton e Tony Blair, si sono votate esclusivamente sul finanziario. Si è creata di fatto una asimmetria tra rendita finanziaria e profitto capitalistico che ha favorito la Cina che con i presupposti della concorrenza sleale ha sparigliato tutti soprattutto nel campo manifatturiero, da sempre fiore all’occhiello dell’Italia. Chi non ha retto questi primi tragici anni del terzo millennio o ha chiuso i battenti o ha delocalizzato la produzione proprio nel paese del Dragone. Dal 2001 in poi i protagonisti dell’economia mondiale saranno altri. L’Italia esce mestamente dal G6 accompagnata verso un ruolo di marginalità politico-economica sempre maggiore. Giuseppe Maneggio www.ilprimatonazionale.it/economia/il-declino-italiano-tutto-e-cominciato-negli-anni-90-19171/
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Padoan ai fondi sovrani: "Italia aperta agli investimenti" su Il Primato Nazionale leggi sotto:
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Padoan ai fondi sovrani: “Italia aperta agli investimenti” Milano, 1 ott - Pier Carlo Padoan apre la porta, anzi il portone, agli investimenti esteri. L’occasione è il convegno International Forum of Sovereign Wealth Funds (IFSWF), evento organizzato dal Fondo strategico italiano che raccoglie i fondi sovrani di tutto il mondo. “Il governo è aperto agli investimenti e impegnato ad aiutare in particolare gli investimenti di lungo termine nel nostro Paese“, ha detto il ministro dell’Economia, ospite d’onore al forum. “Ci sono - ha spiegato Padoan - nuove prospettive di crescita, una modernizzazione della struttura del capitale delle aziende e un processo di privatizzazione in corso”. Padoan non si limita ad un generico invito, ma indica anche quali sono le concrete opportunità di investimento: “Ci sono nuove prospettive di crescita, una modernizzazione della struttura del capitale delle aziende e un processo di privatizzazione in corso”, come ad esempio le future cessioni sul mercato di Poste Italiane e Ferrovie dello Stato. Un menù alla carta in piena regola, che il ministro offre alle generose offerte straniere. Come si muovono i fondi sovrani Generose? Sì, ma anche non del tutto disinteressate. L’Ifswf raccoglie infatti fondi sovrani fra i più importanti. Anzitutto la Cina, che da anni sta costruendo una ragnatela che vede, negli ultimi tempi, l’Italia come bersaglio privilegiato: Cdp Reti (Snam e Terna) e Pirelli sono solo le ultime operazioni che vedono Pechino protagonista, senza considerare i rastrellamenti azionari nelle grandi realtò come Eni, Fca, Unicredit, Prysmian, Generali, Telecom Italia e Mediobanca, il (fu) salotto buono della finanza tricolore. Troviamo poi i fondi dei petrodollari del golfo, come Kuwait ed Emirati Arabi Uniti: il primo aveva già siglato a suo tempo un accordo con il governo Letta, mentre da Abu Dhabi è recentissima la conclusione dell’acquisto del 100% di Piaggio Aerospace. Filippo Burla www.ilprimatonazionale.it/economia/padoan-fondi-sovrani-investimenti-31479/
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Saipem taglierà 8800 posti di lavoro (Il Primato Nazionale) San Donato Milanese, 29 lug - Saipem a fronte di una perdita di 920 milioni di euro nei primi sei mesi del 2015, sarà costretta a tagliare circa 8800 posti di lavoro nel biennio 2015/2017. E’ quanto si legge oggi in una nota della società consociata dell’Eni che afferma “Tra il 2015 e il 2017 si prevede una riduzione della forza lavoro dell’azienda di 8.800 persone, prevalentemente riconducibile al completamento di alcune grosse commesse e alla razionalizzazione delle attività di business e della presenza geografica dell’azienda“. Per far fronte quindi ad una perdita netta di quasi un miliardo di euro evidenziata dalla rivisitazione della guidance che precedentemente prevedeva un debito inferiore ai 4 miliardi a fronte dei 5 attualmente evidenziati, Saipem sarà quindi costretta ad una campagna di licenziamenti e dismissioni di parte del suo patrimonio navale. Sicuramente in quest’ottica ha pesato anche la recente notizia della rescissione del contratto per il South Stream da parte della russa Gazprom, oltre al crollo dei prezzi del greggio che ha praticamente fermato la prospezione offshore negli ultimi mesi, sebbene la sorella maggiore di Saipem, Eni, continui con successo ad assicurarsi contratti di sfruttamento di giacimenti a gas in Estremo Oriente e, recentemente, in Egitto. Viene fatto sapere inoltre, dalla dirigenza, che si provvederà ad un riposizionamento di Saipem sui segmenti di business “core” a maggior valore aggiunto. Il consiglio di amministrazione ha inoltre deciso di anticipare la pubblicazione del nuovo piano strategico, che verrà anticipato entro la data dell’annuncio dei risultati del terzo trimestre. Paolo Mauri www.ilprimatonazionale.it/economia/saipem-tagliera-8800-posti-di-lavoro-28279/
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La Grecia “grande successo dell’euro”? Monti: “Non cambierei una parola” (Il Primato Nazionale) Roma, 10 lug - “Stiamo assistendo al grande successo dell’euro“. Così si esprimeva Mario Monti a proposito della Grecia il 26 settembre 2011, quando la situazione della penisola ellenica era già precaria, ma non ancora drammatica come lo è oggi. Sarà bastato il quadro sempre più a tinte fosche per far cambiare idea all’ex premier? Non sembra, almeno a giudicare dalle affermazioni rilasciate ieri mattina, ospite del programma Omnibus su La7. Incalzato dalla conduttrice su quell’affermazione, risponde: “Non dico niente perché non cambierei una parola oggi“. Più nel dettaglio, Monti spiega: “Qualunque sia l’esito del negoziato, non c’era mai stata per decenni una forza che mettesse all’opera i greci per trasformare sé stessi come l’aspirazione a far parte dell’euro e a cercare di mettersi a funzionare come economia e come società in un modo compatibile con lo standard europeo di economia sociale di mercato“. Cosa intenda Monti per “mettersi a funzionare” non è dato sapere. Forse la disoccupazione al 25% e quella giovanile che supera il 60%? Forse il Pil che ha perso un terzo del suo valore dal 2008 ad oggi? Forse la bilancia dei pagamenti verso l’estero, drasticamente peggiorata dall’ingresso nella moneta unica ad oggi? Forse le esportazioni che negli ultimi anni hanno perso attorno al 20%? Domande retoriche, perché non tengono conto di un fattore: la svalutazione interna -cioé il taglio dello stato sociale, la riduzione dei salari, la disoccupazione- è, in un sistema a cambi fissi, l’unico modo per affrontare i divari di competitività che altrimenti sarebbero assorbiti dalla più logica e normale svalutazione della moneta. In tal senso, il modo in cui la svalutazione è stata affrontata è un esempio di cosa sta già accadendo fra Italia, Spagna e Portogallo. A suo modo, in effetti si tratta di un vero successo. Filippo Burla www.ilprimatonazionale.it/economia/la-grecia-grande-successo-delleuro-monti-non-cambierei-una-parola-27108/
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Ttip: quando un trattato diventa una delega in bianco (Il Primato Nazionale) Bruxelles, 8 giu - Trepidano gli animi nella capitale belga. Lobbisti ed europarlamentari preparano le ultime mosse per il prossimo 10 giugno. Tra due giorni, infatti, è previsto il voto in seduta plenaria del testo della commissione per il commercio internazionale sul Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership). Ossia il famoso trattato che dovrebbe facilitare gli scambi tra i paesi dell’UE e gli Usa. Detta così, sembra che i nostri europarlamentari dovranno decidere sul futuro delle relazioni commerciali tra la Vecchia Europa e i nostri Cari Liberatori. In realtà, come vedremo più avanti, questo voto assegna una delega in bianco a coloro che sederanno al tavolo delle trattative con gli Yankees. Chi, come e quando deciderà i contenuti del Ttip non si sa. Abbiamo scoperto che i trattati si votano prima di essere siglati. È vero, il Consiglio e il Parlamento europeo avranno l’ultima parola, ma è lecito pensare che si tratterà di mettere un mero sigillo su una scelta già fatta. L’argomento era stato già affrontato su questo sito. In particolare, si poneva l’accento su come il decisore sapesse poco o nulla sul contenuto dell’accordo. A distanza di mesi, le cose, dicono, sono cambiate. Molti paletti, infatti, sono stati fissati dai difensori della sovranità europea. Vediamo, quindi, nel dettaglio, il comunicato stampa della Commissione commercio estero del Parlamento Europeo. In base alle raccomandazioni approvate dai nostri europarlamentari l’accordo UE-USA allargherà l’accesso dell’Unione al mercato americano, ma non indebolirà gli standard comunitari né il diritto di disciplinare l’interesse pubblico. Sì, avete capito bene. Si tratta di mere raccomandazioni. Nulla di vincolante. Lo stesso avverrà il 10 giugno con il voto in seduta plenaria. Ma non perdiamoci nei tecnicismi giuridici. L’occasione è ghiotta. Si tratta di aumentare il Pil dipendente dal commercio e dalle esportazioni del 15-20%. Altri economisti, al contrario, sottolineano come un provvedimento di questo tipo possa essere una tegola sulla testa delle Pmi europee. Facciamo qualche esempio. Lo studio della Fondazione Bertelsmann, il più ottimista sull’impatto economico del Ttip, prevede che l’apertura del mercato con gli Stati Uniti ridurrà drasticamente il commercio interno all’UE a cui il 99% delle PMI si rivolge. Altri snocciolano dati più melodrammatici. Il rapporto dei disfattisti e dietrologi che si celano dietro al blog Stop TTIP.it stima che: “Mentre gli scambi USA-Gran Bretagna cresceranno del 60% e quelli Usa-Germania del 94%, il commercio tra Gran Bretagna e Germania si ridurrà del 41% e quello tra Gran Bretagna e la vicina Irlanda del 46%. L’Italia è tra i Paesi UE con il più alto numero di PMI che secondo il rapporto perderanno circa il 30% delle attuali esportazioni in Germania e oltre il 41% di quelle in Gran Bretagna”. In pratica è chiaro dove andrà a finire quest’ombrello. Il ping-pong delle cifre lo lasciamo volentieri agli economisti. Ma, un dubbio rimane. Che cosa disciplina un trattato internazionale? Semplice, si dirà, il diritto internazionale non certo quello interno. In questo caso non è proprio così. Anzi, non lo è affatto. In quest’accordo rientreranno norme che regoleranno il settore agroalimentare o forse, come teme qualcuno, gli appalti pubblici o la sanità. In pratica, lo schema sarà quello del Fondo Monetario Internazionale. Il Fmi è disposto a prestare soldi agli stati solo se può decidere la politica economica del debitore. Liquidità in cambio della sovranità. Neanche gli strozzini si spingono a tanto. Ma così funziona l’economia contemporanea. Dunque, valutando costi e opportunità, siamo proprio sicuri che l’Europa stia facendo un affare? Certo, s’impennerà la crescita e lo sviluppo. Non possiamo metterci a cercare il Pil nell’uovo. Salvatore Recupero www.ilprimatonazionale.it/economia/ttip-quando-un-trattato-diventa-una-delega-bianco-24974/
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Renzi “molto soddisfatto” delle aziende pubbliche. Ma prepara la svendita (Il Primato Nazionale) Roma, 1 ago- Il premier Matteo Renzi si è detto “molto soddisfatto” delle performance economiche nei primi sei mesi delle società controllate dallo Stato. Eni, Enel e Finmeccanica hanno infatti archiviato un primo semestre di tutto rispetto, in controtendenza rispetto ai contesti nazionale ed internazionale. Eni, nello specifico, è la realtà che colpisce di più. Nonostante il prezzo del greggio in continuo calo e ben al di sotto dei livelli anche di solo un anno fa, il cane a sei zampe riesce a contenere la discesa nei fondamentali di bilancio: cala l’utile netto rettificato, che si mantiene comunque in territorio positivo a quota 800 milioni di euro. Pesa il barile al di sotto dei 60 dollari, ma rispetto alle concorrenti Eni ha una marcia in più. Negli ultimi tempi è infatti costantemente aumentata la produzione di petrolio e gas, segno che la società guidata da Claudio Descalzi procede con la strategia già individuata dal suo predecessore Paolo Scaroni di puntare forte sull’upstream. Una mossa azzeccata: “Abbiamo iniziato prima degli altri la cura, principalmente per ristrutturare tre dei quattro nostri business che perdevano tranne l’esplorazione e produzione. Il piano ci assicura la tenuta nel quadriennio anche a 60 dollari, ma possiamo reggere anche al di sotto”, ha spiegato al Sole 24 Ore l’amministratore delegato. Numeri positivi anche da Enel, che archivia i primi sei mesi con utili in crescita del 10% a 1.83 miliardi e continua con passi lenti ma costanti la riduzione del gigantesco debito, ormai stabilmente sotto i 40 miliardi dopoi che aveva -meno di cinque anni fa- superato abbondantemente i 45. Una riduzione di circa un miliardo ogni anni, senza che ciò abbia eccessivamente intaccato la redditività aziendale né la politica dei dividendi nei confronti dei soci. Offre spiragli di ottimismo anche Finmeccanica, che riesce a tornare all’utile dopo molti trimestri in negativo. Nel frattempo sono usciti anche i risultati di Poste Italiane, che nella prima metà dell’anno e dopo le svalutazioni operate in precedenza vede l’utile pressoché raddoppiare da 222 a 435 milioni di euro, in linea con i numeri di tutto rispetto della vecchia gestione Sarmi. Nonostante le indicazioni assolutamente positive, il governo non è intenzionato a deviare dall’ormai tracciata linea delle privatizzazioni delle aziende pubbliche. Dopo la cessione di un’ulteriore quota di Enel lo scorso inverno, ieri l’assemblea dei soci di Poste Italiane ha dato il via libera alla quotazione della società, che dovrebbe nelle intenzioni sbarcare a Piazza Affari entro la fine dell’anno. Dalla vendita sul mercato del 40% della società con sede all’Eur il governo punta ad incassare fra i 6 e gli 11 miliardi. Una forchetta ampia ma che molto probabilmente si collocherà nella parte bassa, segnando -insieme alla ventura di Ferrovie dello Stato, attesa nel 2016- l’ennesimo passo indietro di uno Stato che ormai non è più capace neanche di gestire il proprio ricchissimo patrimonio. Filippo Burla www.ilprimatonazionale.it/economia/renzi-molto-soddisfatto-delle-aziende-pubbliche-ma-prepara-la-svendita-28402/
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Eni - Enel, Italia spa svendesi Roma, 28 ago - Riparte la corsa alle privatizzazioni. Rinviato lo sbarco in borsa di Poste, Sace ed Enav all’anno prossimo, il governo cerca di affrettare i tempi sulla cessione di quote Eni ed Enel. L’obiettivo è fare cassa immediata per raggranellare le risorse necessarie alle coperture di finanza pubblica, in modo da rispettare l’impegno assunto da Padoan che prevede incassi per almeno 10 miliardi dalle dismissioni di partecipazioni statali. Le quote che saranno messe in vendita, al più tardi verso fine novembre ed inizio dicembre, sono il 5% di Enel e il 4.34% di Eni. Agli attuali valori di mercato, si punta a raccogliere almeno 2-2.5 miliardi dalla prima e circa 3 miliardi dalla seconda. Parte della partita dovrebbe inoltre essere StMicroelectronics, società di ingegneria informatica (produce, tra le altre cose, microchip e dispositivi per telefoni cellulari e tablet) le cui quote sono destinate a passare dal ministero dell’Economia al Fondo strategico italiano, in orbita Cassa depositi e prestiti. Quest’ultima partita di giro porterebbe alle casse pubbliche non meno di 700 milioni di euro. Non sembra invece che, per il momento, possa essere coinvolta Finmeccanica: il motivo non è l’opportunità ma il fatto che il gruppo della difesa e dell’aerospaziale sia attualmente sotto un processo di profonda ristrutturazione e, dunque, i tempi non sono maturi. Con la dismissione parziale di Eni ed Enel lo Stato si appresta a scendere sotto il 30% del capitale. Una soglia sempre considerata critica, stanti anche gli ultimi rovesci -sia pur su argomenti non di primaria importanza- che hanno visto il ministero finire più volte in minoranza nelle assemblee dei soci. Rischio che si verrebbe ad aggravare qualora le quote finissero in mano a soggetti attivi in sede assembleare. E proprio gli investitori istituzionali, principalmente americani e cinesi, tradizionalmente presenzialisti nell’attività degli organi sociali, sembra siano i destinatari principali dell’operazione che, stando alle prime indiscrezioni, escluderebbe la clientela cosiddetta “retail” e quindi i risparmiatori interessati più ai ritorni che non all’influenza nel governo societario. L’unico argine è rappresentato dalla recente introduzione del controverso voto multiplo, già inserito nel codice civile ma ancora da trascrivere negli statuti societari e proprio in sede di assemblea. Non è quindi detto che l’applicazione sia automatica ed immediata, lasciando così spazio ad un elevato margine di rischio. Ulteriori problematiche nascono invece dalla convenienza finanziaria dell’operazione. E’ vero che la cessione porta un incasso immediato di non irrilevanti dimensioni (anche se a fronte dell’ammontare del debito pubblico rappresenta meno dello 0.3% totale), ma allo stesso tempo si rinuncia a una parte degli incassi futuri. Eni ed Enel sono società solide che, considerate insieme, rendono non meno del 4.5%. Se confrontate con il rendimento -e cioè il costo- medio del debito pubblico, che si attesta a meno del 4%, la perdita dell’operazione è oltremodo evidente. Filippo Burla (Il Primato Nazionale) www.ilprimatonazionale.it/2014/08/28/eni-enel-italia-spa-svendesi/
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Padoan, il ministro delle svendite. Ai cinesi (Il Primato Nazionale) Roma, 25 lug - La tratta che collega direttamente il ministero dell’Economia con Pechino dev’essere ormai congestionata. Il primo ad inflazionare la rotta fu, all’epoca, Giulio Tremonti: nei suoi libri in veste di politico e saggista metteva in guardia dal pericolo cinese, salvo poi gettarsi nell’abbraccio dell’estremo oriente alla ricerca di acquirenti del nostro debito pubblico. Una mossa che non valse a salvare Berlusconi dalle massicce vendite che causarono l’impennata del differenziale con i bund tedeschi, ma permise comunque alla paese del Dragone di mettere le mani su circa il 4% della nostra esposizione. Non una percentuale altissima, ma che vale comunque più di un centinaio di miliardi di euro. Abbastanza per poter esercitare una rilevante influenza. La partita del debito pubblico non fu e non è, tuttavia, l’unica in corso. In volo con direzione Pechino è stato, dopo il grand tour di Matteo Renzi, anche il ministro Padoan. Sarà per la poco entusiasmante quotazione di Fincantieri (che ha portato nelle casse pubbliche la cifra record di zero euro), sarà per il mercato dei fondi europei sonnacchioso di fronte agli annunci di vendita del patrimonio pubblico, dalle parti di via XX Settembre avranno pensato che una visita non proprio di cortesia fosse necessaria per raggiungere direttamente i potenziali acquirenti. In ballo, a questo giro, è la cessione del veicolo Cdp reti. Si tratta della società, controllata da Cassa Depositi e Prestiti, che detiene le quote di Snam -passata proprio sotto Cdp dopo la separazione da Eni orchestrata in ossequio alle richieste dei fondi d’investimenti dall’esecutivo Monti- e in cui verrà a confluire anche la partecipazione in Terna. La prima si occupa della rete di gasdotti e di siti di stoccaggio, la seconda gestisce invece le linee elettriche nazionali. La cinese State Grid International Development si è detta da tempo interessata ad entrate nel veicolo con una quota di almeno il 35%. Valore dell’operazione due miliardi. La cessione si inserisce all’interno del piano di privatizzazioni lanciato nei mesi scorsi. «L’impegno rimane assolutamente confermato ci stiamo lavorando con diversi capitoli», ha affermato Padoan, confermando che «gli obiettivi del Def saranno rispettati». Vale a dire che si puntano a raccogliere, con non poche ambizioni, 12 miliardi l’anno da qui al 2017. Sul tavolo ci sono le operazioni di Enav e Poste, ma anche l’alienazione del patrimonio immobiliare. E soprattutto, le cessioni di quote anche di Eni ed Enel (circa il 5% ciascuna, controvalore 6 miliardi), coperte in termini di controllo sulle aziende stesse dall’assurda ipotesi di emettere azioni a voto plurimo. Così, dopo il protocollo d’intesa firmato con Sace per il finanziamento agli investimenti - alias delocalizzazioni produttive, dopo le oltre 200 acquisizioni aziendali avvenute nel nostro paese negli ultimi anni da parte di imprenditori e gruppi cinesi, ora a Pechino è direttamente il ministro a rivolgersi, nascondendo non troppo velatamente una richiesta di aiuto per la svendita di ciò che resta del patrimonio industriale pubblico. Filippo Burla www.ilprimatonazionale.it/2014/07/25/padoan-il-ministro-delle-svendite-ai-cinesi/
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Meta System, un altro pezzo dell’industria italiana prende la via della Cina (Il Primato Nazionale) Reggio Emilia, 2 apr - Non si ferma la lunga marcia del dragone, che mette a segno un altro colpo nei confronti dell’industria manifatturiera italiana. Dopo il caso Pirelli, questa volta tocca all’emiliana Meta System, azienda fondata nel 1973 e leader mondiale nel settore dell’elettronica innovativa per l’automotive. L’acquirente è la cinese Deren, gigante asiatico da oltre due miliardi di euro di capitalizzazione, che al termine dell’operazione arriverà a controllare il 60% di Meta System. Nonostante le garanzie sul mantenimnento dell’attuale dirigenza per i prossimi cinque anni, Deren avocherà a sé le attività di produzione, marketing e vendita sul mercato di Pechino. La sproporzione è evidente: Meta System ha un fatturato di “soli” 150 milioni di euro, ma è previsto che grazie all’accordo potrà cresce fino a toccare quota 400 entro il 2020. “Grazie alla joint venture con Deren potremo valorizzare al meglio tutte le sue competenze: tecnologia, prodotti e processi industriali, ottenendo i volumi di vendita necessari per conseguire i risultati economici e finanziari richiesti per operare con continuità”, spiegano da Meta System. L’interesse della Cina per il settore dell’auto deriva dal fatto che la potenza asiatica negli ultimi quindici anni ha decuplicato la propria produzione, passando dall’ottavo al primo posto nella classifica mondiale, doppiando abbondantemente gli Stati Uniti che mantenegono la seconda piazza. Oggi oltre un quarto del totale di auto prodotte ha origine in Cina, ma sono ancora ampi i margini di crescita. Al fine di presidiare ulteriori fette di mercato è necessario però puntare non solo sulla quantità e sui costi, ma anche sulla qualità. E qui emergono le difficoltà relative all’ambito ricerca e sviluppo. Vero è che la Cina deposita ogni anno un numero di brevetti tale da superare qualsiasi concorrente, ma allo stesso tempo questo non basta per acquisire il “saper fare” frutto di decenni di studi e perfezionamenti successivi, che rendeno poi i brevetti effettivamente applicabili. Ecco allora le acquisizioni in serie di realtà europee storicamente radicate, che hanno nel tempo creato quel capitale umano necessario all’innovazione. In altre circostanze si sarebbe parlato di capitalismo predatorio. Ora invece si chiama globalizzazione. Filippo Burla www.ilprimatonazionale.it/economia/cinese-deren-compra-azienda-italiana-meta-system-20298/
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Pronte nuove liberalizzazioni, pronte nuove rendite di posizione (Il Primato Nazionale) Roma, 28 nov - La sede non poteva essere più appropriata: l’Istituto Bruno Leoni, think tank spiccatamente liberale che da sempre si esprime a favore delle liberalizzazioni nei più disparati settori. Una coerenza disarmante, anche quando le evidenze danno contro questo tipo di scelta politica. L’occasione, nello specifico, è la presentazione dell’indice sulle privatizzazioni. E’ qui che il ministro dello Sviluppo, Federica Guidi, ha annunciato un nuovo piano che coinvolge parafarmacie, servizi postali e ferrovie. «La bozza della proposta di legge sarà presentata a breve accoglierà le direttive dell’Antitrust su vari settori su cui stiamo lavorando», ha affermato il ministro, che ha poi aggiunto: «siamo nella fase di definizione finale e spero che nelle prossime settimane saremo pronti per presentarla formalmente». L’obiettivo che si pongono ai vertici di palazzo Piacentini è quello di creare nuove opportunità di fare impresa, perché, ha osservato sempre la Guidi, «parlare di liberalizzazioni e concorrenza è un modo per creare crescita e occupazione». Parole che non sono sfuggite a Luca Palermo, amministratore delegato di Nexive, operatore postale privato. «La situazione italiana continua a rappresentare un’eccezione in Europa. L’incumbent può ancora godere di sussidi statali, a fronte di una attività postale che è un sesto del business dell’azienda, che utilizza la sua rete per fare cassa nei settori finanziario e assicurativo», ha osservato con ovvio riferimento alle Poste Italiane. Un’affermazione abbastanza fuori luogo, dato che il gruppo guidato da Francesco Caio ha, nel tempo, intrapreso un percorso di progressivo smarcamento dal servizio postale “classico”, incapace di reggere la concorrenza con i sistemi di comunicazione telematici. Si chiama diversificazione produttiva e non ha, fino ad ora, costituito reato. Le parole della Guidi, d’altra parte, giungono proprio nel giorno in cui, intervistato dal giornalista del Sole 24 Ore Claudio Gatti, l’amministratore delegato di Acquirente Unico -la società che nell’ambito del settore energetico si occupa dei contratti di chi ancora non e’ passato al “mercato libero”, ha candidamente ammesso che «un mercato non ha necessariamente successo. Un mercato può anche fallire». La dinamica delle tariffe energetiche, nonostante la madre di tutte le liberalizzazioni voluta da Bersani a fine anni novanta, parla in effetti abbastanza chiaramente: da un monopolio si è passati ad un oligopolio, creando rendite di posizione con la scusa del ricorso al mercato. Filippo Burla www.ilprimatonazionale.it/2014/11/28/pronte-nuove-liberalizzazioni-pronte-nuove-rendite-posizione/
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@NEROITALICO 9 лет назад
1936: quando il governo mise il guinzaglio ai banchieri (Il Primato Nazionale) Roma, 10 mar - Dopodomani ricorre un importante anniversario. Il 12 marzo del 1936 con il (DL 12 marzo 1936 n. 375 - legge 7 marzo 1938, n. 141), si riformava in maniera integrale ed unitaria il sistema bancario italiano. Il decreto legge poggiava su tre punti essenziali. In primis l’istituzione di un organismo statale avente funzioni di alta vigilanza e di direzione politica dell’attività creditizia. In secundis, introduzione della specializzazione istituzionale, temporale ed operativa degli enti di credito. Molto importante fu la separazione tra banche operanti a breve termine e quelle operanti a medio lungo termine. Ed, infine, l’affermazione del principio della separatezza tra banche ed industria: le banche non potevano assumere partecipazioni in imprese industriali e commerciali. Detta così non si comprende l’importanza di tale normativa. Tradotto in soldoni, significava che la Banca d’Italia era arbitro del sistema creditizio. In pratica, i banchieri dovevano decidere il loro core business: risparmio o speculazione. Non solo, ma anche era fatto divieto alle banche di entrare nei consigli di amministrazione delle aziende. Il principio è molto semplice. Chi eroga credito non può essere socio del creditore. A tal proposito sul sito della Banca d’Italia si legge che: “In un contesto di preparazione alla guerra (nel 1935 iniziò l’aggressione all’Etiopia) venne elaborata, la legge di riforma bancaria del 1936. Una prima parte (tuttora in vigore) della legge definì la Banca d’Italia (istituto di diritto pubblico) e le affidò definitivamente la funzione di emissione (non più, quindi, in concessione). Gli azionisti privati vennero espropriati delle loro quote, che furono riservate a enti finanziari di rilevanza pubblica. Alla Banca fu proibito lo sconto diretto agli operatori non bancari, sottolineando così la sua funzione di banca delle banche. Una seconda parte della legge (abrogata quasi interamente nel 1993) fu dedicata alla vigilanza creditizia e finanziaria: essa ridisegnò l’intero assetto del sistema creditizio nel segno della separazione fra banca e industria e della separazione fra credito a breve e a lungo termine; definì l’attività bancaria funzione d’interesse pubblico”. L’autorevole centro studi di Bankitalia dimentica però che il maledetto regime fascista iniziò ad occuparsi del sistema creditizio molto prima della guerra in Etiopia. Nel 1926 entrarono in vigore alcuni importanti decreti. Vediamo quali. La Banca d’Italia diventava l’unico istituto di emissione e vigila tutte le banche. Essa, dunque, doveva autorizzare la costituzione di nuove aziende di credito, l’apertura di nuovi sportelli e le fusioni tra banche. Vi era, altresì, l’obbligo di accantonamento a riserva di almeno 10% degli utili e di presentare il bilancio d’esercizio e le situazioni periodiche alla Banca d’Italia. Nonostante questi provvedimenti, la legislazione del 1926 si manifestò inadeguata ad evitare squilibri pericolosi tra la raccolta e gli impieghi. Nel 1929 la grande crisi investì il nostro paese e il nostro sistema bancario, essendo ancora molto legato all’industria, si trovò in gravi difficoltà. Lo Stato, in questo modo, fu costretto a intervenire con un duplice obiettivo: favorire il finanziamento degli investimenti durevoli delle imprese mediante mutui a medio lungo termine. E rilevare le partecipazioni industriali possedute dalle banche, onde restituire a esse la necessaria liquidità. Nacquero, quindi, nel 1931 l’IMI (istituto mobiliare italiano) e nel 1933 l’IRI (istituto per la ricostruzione industriale), che diventò poi perno del sistema delle partecipazioni che lo stato si era trovato a possedere dopo gli interventi. Bisognerebbe, infine ricordare alle teste d’uovo di Palazzo Koch che la fascistissima legge del 1936 fu abrogata in parte solo negli anni novanta. Una bella carriera per una legge partorita da un regime illiberale. Il merito va tutto all’illustrissimo professor Giuliano Amato. La legge 30 luglio 1990 n°218 (“Legge Amato”) portò avanti il processo di ristrutturazione delle banche di diritto pubblico secondo le norme della S.p.a. Gli effetti principali della legge furono diversi. Si rafforzò la struttura patrimoniale delle banche rendendo loro possibile il ricorso al mercato per la provvista di nuovo capitale di rischio, cioè per la loro ricapitalizzazione. Si adeguò il processo di concentrazione delle banche, attraverso operazioni di fusioni tendenti a produrre dimensioni aziendali competitive a livello europeo. Ponendo di fatto le basi per la “privatizzazione” degli istituti pubblici. Se questo non bastava, nel 1993, quando tutti pensavano a tirare le monetine contro i politici, il lavoro fu portato a termine. Il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia “Ha riunito in un quadro unitario e organico le disposizioni esistenti, delineando così, una nuova struttura e una nuova disciplina del settore creditizio. L’attività bancaria: Ha carattere d’impresa: va svolta con criteri imprenditoriali e privatistici. Ѐ riservata alle banche: alle imprese in possesso dell’autorizzazione della Banca d’Italia e iscritte all’Albo”. Grazie ad Amato il sistema creditizio è fondato sul principio della despecializzazione delle banche: istituzionale, temporale ed operativa. “ Tutte le banche sono S.p.a o società cooperative per azione a responsabilità limitata. Non esiste più la differenziazione tra banche che operano a breve termine e quelle che operano a medio lungo termine. Le banche possono operare in ogni settore e offrire una gamma maggiore di servizi. Le banche, inoltre, possono detenere partecipazioni nel capitale di imprese del settore industriale e commerciale e viceversa”. Oggi giustamente la gente si sente oppressa dall’Europa delle banche. In realtà, la nostra sovranità l’abbiamo svenduta qualche anno prima. Bisognerebbe quindi riflettere bene per capire la vera genesi dei nostri problemi. La storia sempre ci riserva molte sorprese. Le vicende umane sfuggono alle categorie e ai recinti dentro cui noi vogliamo ingabbiarle. Infatti, fu il socialista riformista Alberto Beneduce ad aver avuto carta bianca da Mussolini per mettere ordine nel sistema bancario italiano. Sessanta anni dopo un altro socialista come Giuliano Amato metteva in mano ai poteri forti della finanza le sorti della nostra economia. Ma perché il fascismo-regime delegava la gestione dell’economia pubblica ad un socialista per di più massone? Per capire questo basta ricordare una frase tratta da Il Trattato del ribelle di Ernst Junger: “Il ribelle non si lascia abbagliare dall’illusione ottica che vede in ogni aggressore un nemico della patria”. Salvatore Recupero www.ilprimatonazionale.it/economia/riforma-sistema-bancario-italiano-1936-18740/
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Rincari record: come le privatizzazioni dissanguano i cittadini www.ilprimatonazionale.it/2014/07/06/rincari-record-come-le-privatizzazioni-dissanguano-i-cittadini/ Dieci anni di liberalizzazioni, dieci anni di rincari www.ilprimatonazionale.it/2014/07/05/dieci-anni-di-liberalizzazioni-dieci-anni-di-rincari/
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Se Renzi finanzia la multinazionale che chiude gli stabilimenti italiani (Il Primato Nazionale) Roma, 10 mar - Sono bastati 3 minuti al colosso multinazionale Prysmian, leader mondiale nella produzione di cavi elettrici, con presidenza italiana, per dichiarare la chiusura immediata dell’ennesimo stabilimento della zona industriale di Ascoli Piceno. E’ successo il 27 Febbraio 2015. La multinazionale Prysmian Cables & Systems Ltd non è affatto un gruppo in crisi, basti pensare che ha chiuso lo scorso esercizio con un utile netto di 115 milioni di euro e di 153 milioni nell’esercizio precedente. E’ presente in 50 paesi del mondo ed ha un totale di 91 stabilimenti, di cui 9 in Italia. La solidità del gruppo è stata sottolineata giust’appunto pochi mesi fa, da Matteo Renzi in persona che il 17 Novembre 2014 ha deciso di visitare lo stabilimento di Sidney dichiarando: “Un’azienda italiana può essere leader nel mondo se noi coinvolgiamo la gente a lavorare giorno dopo giorno in un grande progetto, grazie del vostro lavoro, grazie della vostra qualità. Prysmian oggi è una delle più importante aziende italiane, per cui oggi sono particolarmente felice, e neppure i giornalisti italiani comprendono bene l’importanza della Prysmian in tutto il mondo”. Parole che sanno di beffa per i 120 lavoratori che l’azienda si appresta a lasciare a casa per motivi del tutto inspiegabili. Lo stabilimento di Ascoli ha raggiunto il premio produzione nel 2014 e diffusamente negli ultimi 15 anni. Giusto pochi giorni prima dell’annuncio, agli operai è stato proposto di investire il proprio TFR nelle azioni del gruppo (in constante crescita, ndr). La beffa poi diventa doppia se si scopre che il governo di Matteo Renzi ha finanziato il gruppo con 32 milioni di euro di soldi pubblici per l’impegno nel sud Italia. E’ possibile che questi fondi non siano vincolati alla tutela dei lavoratori italiani e al mantenimento degli stabilimenti in funzione sul suolo nazionale? E’ possibile che un gruppo industriale possa ricevere 32 milioni dal governo e chiudere gli stabilimenti? Monta la rabbia al Presidio permanente che i lavoratori hanno indetto e che ha incassato la solidarietà di tantissimi cittadini semplici che supportano una battaglia di dignità che però vede poche prospettive all’orizzonte. La politica industriale nazionale è completamente assente. Una nazione che ha completamente abbandonato il comparto industriale, sulla cui crisi potremmo fare ormai migliaia di esempi. Una nazione che non riesce a vincolare neanche le aziende in forte attivo, che le finanzia per poi permettere loro di chiudere, delocalizzare e poi tornare a vendere i propri prodotti sul nostro suolo nazionale come se nulla fosse, mentre i governanti tessono le lodi dei dirigenti in cambio, magari, del finanziamento della prossima campagna elettorale. Una nazione con la disoccupazione giovanile vicina al 50% dove la gente è ormai stanca di subire la dittatura del libero mercato, e le politiche miopi e servili dei vari governi. Una nazione la cui politica dovrebbe rimettere seriamente al centro il lavoro e la sua tutela, nell’interesse nazionale. Il lavoro nobilita l’uomo, diceva un proverbio, ma la disoccupazione e la mancanza di prospettive stanno uccidendo anche la dignità. Giorgio Ferretti www.ilprimatonazionale.it/economia/governo-matteo-renzi-finanzia-multinazionale-prysmian-18705/
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Da un paio di giorni tutti quelli che piangevano in TV perché tornando alla Lira avremmo avuto una forte svalutazione sono in tutte le trasmissioni a glorificare la svalutazione dell'Euro. Opinionisti strapagati per piangere o ridere a comando, con quale faccia guardate i vostri figli la mattina? Simone Di Stefano CasaPound Italia
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Parte il quantitative easing targato Draghi. Funzionerà? (Il Primato Nazionale) Roma, 10 mar - In principio furono le Ltro, acronimo di Long term refinancing operations (operazioni di rifinanziamento a lungo termine), con le quali la Banca centrale europea ha immesso nel sistema, a partire dal 2011, oltre 1500 miliardi di euro nel tentativo di superare la stretta creditizia. La massiccia iniezione di liquidità non si è tuttavia concretizzata nel superamento del credit crunch, con le banche che hanno preferito tesaurizzare le risorse messe a disposizione da Francoforte per puntellare i loro bilanci. Il correttivo agli scarsi risultati delle Ltro è arrivato con le Tltro, dove la “T” sta per Targeted, cioè mirate: le banche possono ottenere prestiti dalla Bce sulla base dei prestiti (ad eccezione dei mutui) concessi all’economia reale, per cui chi più allenta le maglie del credito, più potrà rivolgersi all’istituto guidato da Mario Draghi per rifinanziarsi. Tali operazioni non hanno però avuto il successo sperato. Per quanto riguarda l’Italia, ad esempio, sui 70-75 euro potenzialmente riservati ai nostri enti creditizi, solo 50 ne sono stati presi in prestito. In ultimo venne il Quantitative easing. L’alleggerimento quantitativo, che ha preso ufficialmente il via nella giornata di ieri, rappresenta probabilmente l’ultima misura, l’extrema ratio in mano alla Bce per provare ad agganciare la ripresa e l’uscita dalla crisi. Il piano è, a suo modo, semplice: fino a settembre 2016 verranno acquistati 45 miliardi al mese di titoli di Stato, per un totale a scadenza -considerando anche gli altri acquisti di asset-backed securities e covered bond- di oltre 1000 miliardi. Per quanto riguarda i buoni del tesoro, il rischio sarà ripartito al 20% sulla Bce e all’80% sulle banche centrali nazionali. E’ probabilmente la prima volta che la politica monetaria si sposta, seppur in parte, dal centro alla periferia. L’obiettivo dichiarato del piano di quantitative easing è quello di riportare l’inflazione ad un livello “vicino al 2%”, come più volte spiegato dalla Bce. Nonostante la mole miliardaria, la misura tuttavia non sarà, da sola, in grado di tirare fuori l’Europa dalle secche. Questo per due motivi. Anzitutto i precedenti “storici”. Se le banche non hanno ripreso a finanziare l’economia negli anni scorsi, non è detto che -senza correttivi di rilievo come potevano essere le Tltro- a questo giro qualcosa possa veramente cambiare. In secondo luogo, il quantitative easing ha un limite importante che risiede nel fatto di non coinvolgere l’intera area euro. Grecia e Cipro sono infatti escluse dalla manovra, in quanto ancora soggette al piano di aiuti che vede coinvolte, oltre alla stessa Bce, anche Ue e Fmi. In particolare, per quanto riguarda la Grecia, l’acquisto dei suoi titoli potrà parte solo quando Atene avrà raggiunto il fatidico accordo con i creditori. Dall’altra parte, nei 15 mesi di durata dell’operazione gli Stati potranno presumibilmente godere di più bassi tassi sui titoli, mentre gli imprenditori giovarsi di un cambio più favorevole alle esportazioni al di fuori dell’area euro. Una volta che il Qe andrà però a ridurre la sua portata, quando non ad interrompersi del tutto, i problemi strutturali non affrontati -e principalmente, almeno per quanto riguarda i produttori italiani, una moneta sopravvalutata- torneranno prepotentemente a palesarsi. Filippo Burla www.ilprimatonazionale.it/prima/quantitative-easing-piano-bce-crisi-18659/
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SOVRANITA' - Per l'industria italiana, dall'euro in poi un inesorabile e rapido declino A chi con diverse ragioni argomenta che non è colpa dell'euro, rispondiamo che infatti non è solo colpa dell'euro, ma di una classe dirigente decadente, corrotta e impreparata, che avrebbe dovuto tutelare l'Italia dagli attacchi internazionali, e colpevolmente non lo ha fatto. e anzi ha creato un doloso vuoto di sovranità. La cosa incredibile, specie per un paese moderno, è che la stessa classe dirigente che ha provocato il grave declino italiano, governa in varie forme ancora. Non solo: i suoi vertici sono tra i candidati per la Presidenza della Repubblica. facebook.com/sovranita
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Ancora tasse, arriva anche la patrimoniale Leggi su Il Primato Nazionale. Clicca il link sotto www.ilprimatonazionale.it/2014/06/25/tasse-tasse-e-ancora-tasse-e-in-arrivo-ce-pure-la-patrimoniale/
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La Piaggio Aerospace diventa araba al 100% leggi su: Il Primato Nazionale link vedi sotto:
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