Giunto è tempo di dirci l’amore, di congedare per sempre, ti chiedo, nostro consueto antico pudore. Non chieder più perché fuggo lontano, perché di fianco a te più non siedo, e ti respingo scontroso la mano; so che ogni ora mi ricordi e m’aspetti, di te so tutte le ambasce e gli affetti. Perché, mi chiedi, in estremo lembo di terra io viva, e non nella natale nostra io cerchi l’ultimo grembo. Mesta intuisci che il mio stato naturale resta la pena fatale: l’esiglio, ma la speri fiera posa sdegnosa, mi vedi a casa con bimbi e sposa, e non come un naufrago alla deriva che annaspa senza alcun appiglio, e non trova dentro sé fiamma viva, proda buona verso cui nuotare. Mamma, anch’io so che essere soli è un male: ma non so più tornare a prima gioia, quando non era in me cupo vizio, e vanto sciocco, la odierna noia, e solo mi bastava il tuo sodalizio. Qui non sto cercando tuo consiglio, soltanto che questo messaggio tu legga, di me, reo figlio: “Basta, non è saggio prolungare il rancore, dimentichiamo il male che ci siamo dati, tutti gli scorni passati. Nulla di questo resterà: tutto affonderà giù giù in una clessidra di sabbia, l’odio e il dolore, i silenzi e la rabbia, e anche le risa e gl’attimi belli: è tutto in una gabbia di fuggevoli granelli. Non sprechiamo altre ore, sei vecchia, sono vecchio: perché tu, in me, nüova, e in te io, nüovo, mi specchio”