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La raffineria di Gela
(a cura di Saul Caia e Rosario Sardella)
Il sogno di Enrico Mattei, presidente dell'Eni, era quello di fare dell'Italia una delle principali nazioni nella produzione energetica. Per farlo era necessario puntare sulla Sicilia sudorientale. Mentre a Siracusa nasceva il polo petrolchimico, a Gela fu scoperto un grande giacimento di greggio, così l'Eni nel 1965 diede vita a una raffineria.
A quasi cinquant'anni di distanza il polo industriale di Gela è uno dei più importanti d'Italia: raffina 5 milioni di tonnellate di greggio l'anno, 100mila barili al giorno. Eppure proprio in questi mesi il colosso dell'energia ha fatto un passo indietro, decidendo di massimizzare “la produzione di diesel e - si legge sul sito di Eni - interrompere la produzione delle benzine e del polietilene, rendendo al contempo più eco-compatibili i processi di lavorazione”.
L'azienda ha revocato i 700 milioni di investimenti per ammodernare gli impianti e nello stesso tempo è stato confermato il blocco, almeno fino a dicembre, di tutte e tre le linee produttive. Dopo l'annuncio, il 29 luglio davanti alla Camera dei deputati circa 300 dipendenti hanno manifestato contro il rischio chiusura dell'impianto siciliano e diverse migliaia di cittadini , con sindacati e istituzioni hanno attraversato Gela in corteo. A rischio ci sono 3.500 posti di lavoro.
Se da una parte il polo industriale è il centro economico di Gela, dall'altra il suo impatto ambientale ha causato non pochi problemi alla popolazione e al territorio. Già nel 1990 il governo aveva classificato la zona tra le “aree ad elevato rischio ambientale” e otto anni dopo (con la legge 426/1998) l'ha inserita tra i 15 Siti d'interesse nazionale (oggi sono 57) per il piano di bonifica del territorio.
Lo studio Sentieri, condotto in 44 città tra i 57 Siti di interesse nazionale dall'Istituto superiore di sanità e finanziato dal ministero dell'Ambiente, ha rilevato dal campionamento degli alimenti a Gela “una contaminazione da metalli pesanti nei prodotti locali che può essere associata prevalentemente all’uso irriguo di acqua di falda contaminata e all’inquinamento atmosferico”.
Dai dati risulta inoltre “la prevalenza alla nascita di ipospadie (una malformazione dell'apparato riproduttivo maschile, ndr), tra le più elevate mai riportate in letteratura”. Secondo le stime sarebbero più di 700 le famiglie colpite.
Inoltre la procura di Gela ha aperto un'inchiesta per accertare le responsabilità di Eni nella morte di 16 operai che tra il 1971 e il 1994 avevano lavorato nell'impianto Cloro-soda e si sono ammalati di tumore. Gran parte dei 105 ex operai ancora in vita si si sono costituiti parte civile: molti di loro hanno contratto patologie simili e sperano nel riconoscimento della malattia professionale. E come se non bastasse, l’ospedale locale è sprovvisto di reparti specializzati, così chi deve sottoporsi a la radioterapia deve arrivare fino a San Cataldo, più di 70 chilometri di distanza.
Il Comitato delle famiglie vittime del Cloro-soda vede in prima linea Massimo Grasso e Daniele Esposito Paterno, figli di ex operai defunti, che hanno denunciato le manomissioni dei libretti sanitari dei loro genitori e di molti altri dipendenti. Contattata per un replica in merito, Eni ha ritenuto di non rispondere e ha affermato di avere “piena fiducia nella magistratura” e che si esprimerà “solamente dopo l'esito finale del giudizio”.
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7 сен 2024